Una lenta risalita da Lodi a Milano Così si è mossa l’epidemia Covid
La dinamica della curva dei contagi in città dal primo caso milanese a febbraio (quando a Codogno i casi erano 45 e molto si poteva fare per evitare l’epidemia) fino al picco negli ultimi 15 giorni di maggio, quando l’indice Rt ha quasi raggiunto la soglia critica fermandosi a 0,91 persone contagiate in media da ogni persona positiva. La mappe dell’Ats che raccontano la diffusione del Sars-CoV-2 sottotraccia tra la popolazione.
Centoquarantadue nuovi positivi in un giorno in Lombardia non provocano allarme. La maggior parte però (59) sono in provincia di Milano. È andata così (con una proporzione ancor maggiore) anche nei giorni scorsi. È dunque ipotizzabile che il capoluogo, che conta sia il maggior numero di nuovi casi, sia la maggior quantità di malati, stia facendo alzare l’Rt della Lombardia, l’indicatore che definisce la forza espansiva del Covid-19 e che, stando al report dell’Istituto superiore di sanità basato sull’ultima settimana di maggio, è arrivato a 0,91 (dunque ancora sotto controllo, ma più vicino alla soglia di allerta, il valore 1, che significa che ogni malato infetta almeno un’altra persona). Gli ultimi dati descrivono la coda dell’epidemia: ma oltre un mese dopo il lockdown si può contemplare il suo intero sviluppo a Milano.
L’epidemia sommersa
Bisogna guardare (per ricordare) le prime mappe. Quella del 22 febbraio, 48 ore dopo la scoperta del «paziente 1» a Codogno. A Milano, un solo caso di Covid; nel focolaio del Lodigiano, 45. Tradotto in grafica, qualche chiazza d’un arancione sbiadito in provincia di Lodi (vuol dire meno di 4,5 contagiati ogni mille abitanti): tutto il resto, intorno a Milano e in città, completamente bianco. Qualche chiazza in più, sempre al minimo, si nota verso la metropoli qualche giorno dopo, il 26 febbraio, quando viene decisa la chiusura delle scuole. Il coronavirus circola, ma quanto sia diffuso in quei giorni ancora non si vede. È nella sua fase sotterranea, quella più insidiosa, quando ogni malato sta infettando almeno altre due o tre persone, e le istituzioni e i cittadini stentano a prenderne coscienza. Il virus si muove, rimbalza, si trasmette senza ostacoli, anche se ancora non porta le persone in massa in ospedale, e quindi non genera terrore.
È la fase in cui si potrebbe contenere, (per evitare almeno una parte del disastro deflagrato dopo). Ma quelle mappe, quasi tutte bianche, in quel tempo alimentano una candida illusione.
I giorni di attesa
Eccola, nella rappresentazione in grafica animata elaborata dagli epidemiologi dell’Ats, la storia del coronavirus a Milano. L’evidenza più plastica della marea montante che giorno dopo giorno s’approccia alla città, la circonda, infine la investe e la ingloba, con un ritardo d’una decina di giorni rispetto ad altre province (ritardo che ha evitato l’ecatombe più drammatica sul capoluogo). A Milano, dicono sempre gli epidemiologi dell’Ats, la mortalità è comunque aumentata del 118 per cento tra marzo e aprile, facendo almeno 3 mila vittime.
Ecco, quelle mappe allora aiutano a definire meglio il brevissimo ma cruciale periodo nel quale, risalendo dal Lodigiano, il virus si insinua nei palazzi, negli uffici, negli ospedali, nelle residenze per anziani. E sono proprio i «giorni dell’illusione»: quelli tra il «paziente 1» e il lockdown in cui la città si può cullare sul motto #milanononsiferma, quando si spera (senza alcun fondamento scientifico) che l’epidemia possa fermarsi lì. I giorni dei dibattiti e delle schermaglie su cosa e quando chiudere, sui bar prima fermati alle 18 e poi riaperti, fino a che la comunità scientifica non si impone sul governo che decreta la «zona rossa» dell’intera
Lombardia (7 marzo) e poi il lockdown definitivo con la chiusura anche dei negozi (dal 12 marzo). Ma a quel punto, praticamente, (quasi) tutto è già successo: e infatti se i numeri raccontano che il 12 marzo a Milano i casi positivi sono 1.274 (1.059 a Lodi), la mappa mostra che non c’è alcuna zona in cui il virus non si sia diffuso. L’arancione sbiadito che già colora l’intero territorio dice che i malati sono ovunque, e che fino a quel giorno ognuno di loro ha contagiato almeno altri due amici, parenti, colleghi, conoscenti occasionali.
Così la città, come il resto d’Italia, viene blindata: ma l’onda che è già montata (i contagi già avvenuti) non si può più fermare, e anzi continuerà in parte a moltiplicarsi sommersa negli ambienti chiusi dove i malati si trovano confinati, le famiglie, gli ospedali e le Rsa. E infatti al 21 marzo, quando chiudono le fabbriche e le aziende non strategiche, i contagiati a Milano sono saliti a 4.499, e la mappa è ancor più arancione.
È stata la caratteristica decisiva di tutte le politiche antiCovid nel mondo: dati i ritmi imponenti di diffusione sommersa e, dall’altra parte, il ritardo col quale si vedono i sintomi, l’epidemia è stata contrastata davvero quando aveva già fatto buona parte dei danni, o quantomeno aveva piantato le radici per cui poi quei danni sono stati in parte irreversibili. Tanto che l’Rt a Milano scende sotto l’1 proprio intorno al 21 marzo, ma alla fine del lockdown (4 maggio) la provincia conta 20.805 casi positivi e quasi tutte le aree della mappa sono passate a gradazioni d’arancio intenso (tra i 6 e i 10 infetti ogni mille abitanti).
Sulle mappe c’è però un punto di (parziale) salvezza: a Milano città in nessuna zona è stata sballata la soglia dei 10 casi per mille abitanti. Vuol dire che la marea è stata fermata sì in ritardo, ma comunque un gradino prima rispetto a una devastazione che avrebbe potuto avere proporzioni molto più ampie.