«Mi sono ispirato a Buzzati»
Andrea Vitali racconta «Il metodo del dottor Fonseca»
Un poliziotto viene mandato tra le montagne nell’immaginaria Spatz per risolvere un caso apparentemente semplice: è morta una ragazza, probabilmente l’ha uccisa il fratello, malato mentale. Invece, con toni gotici, la situazione si complica nel nuovo romanzo di Andrea Vitali «Il metodo del dottor Fonseca» (Einaudi) e dietro le apparenze si cela il male. È la seconda prova, dopo «Documenti, prego», lontana dalle ambientazioni lacustri e corali dei romanzi dello scrittore di Bellano ed è un viaggio in un’altra poetica, nera e tesa. Ne abbiamo parlato con l’autore che presenta oggi il romanzo a Milano. Come nasce quest’altro mondo noir di Vitali?
«È il mondo opposto a quello che ho sotto gli occhi, un mondo scuro in cui riverso suggestioni che non potrei raccontare nei miei romanzi ambientati sulla riva del lago dove il vero protagonista, in fondo, è il paesaggio e chi lo abita. Si ispira ad alcune mie fascinazioni narrative, dai «Sessanta racconti» di Buzzati ai libri di Dürrenmatt, ed è un tipo di racconto che ha bisogno di una narrazione verosimile, ma geograficamente indeterminata. Anche molti personaggi sono anonimi ed è un altro escamotage per rendere più lontana la storia dalla realtà visibile».
In effetti, il poliziotto protagonista non ha nome, mentre il suo capo ne ha uno inquietante: Maiale. Da dove nasce?
«Dall’immagine di una bestia vicina alla morte che mi è rimasta impressa in modo traumatico. Anni fa, in una gita al passo dello Spluga, ho visto un maiale con la testa incastrata in un secchio che si dibatteva cercando di liberarsi e nessuno lo aiutava. Ho fatto una sorta di proiezione verso questo personaggio dal profilo suino, sempre seduto come se fosse in una stalla, e di cui nessuno sa niente, se non che vive di lavoro ed è perennemente arrabbiato. Allora, l’ho battezzato così».
È stato difficile e lungo elaborare un altro ritmo e tono?
«Sì, ci ho messo quindici anni tra la prima stesura e la pubblicazione. Ho sempre avuto un po’ di timore perché questo tipo di racconto ti obbliga a confronti alti con temi che in altre storie ho sfiorato o evitato accuratamente. Sono dovuto maturare interiormente per convincermi che era il momento di rischiare e far uscire il mio lettore dalle sue abitudini. La critica ha apprezzato “Documenti, prego”, ma sapesse quanti insulti mi sono arrivati da chi si aspettava il mio tono da commedia e la solita ambientazione».
Anche l’uso della prima persona è inconsueto per lei: è un modo per entrare più a fondo nel male?
«Mi è utile per essere più chiaro con me stesso e più preciso, anche in termini di scrittura, mentre negli altri romanzi mi piace divagare. Qui cerco di stare all’essenziale del racconto».
Vede un legame tra i suoi due mondi narrativi?
«Sono come le due facce della luna, che corrispondono anche alle variazioni del tono dell’umore, cambi di tono emotivo positivi e negativi che ti spingono a un diverso approccio, tanto alla realtà quanto al racconto».
Ricerca interiore «Mi sono ispirato a Buzzati e Dürrenmatt e dalla prima stesura sono passati 15 anni»