L’astrattismo è femmina
Il Museo del Novecento celebra Carla Accardi
Una mostra su Carla Accardi (1924-2014) si può fare inseguendo (invano) una produzione vastissima, con il rischio dell’effetto noia; oppure attraverso il racconto del contesto storico e sociale, operando una scelta oculata delle opere con lo scopo di svelare all’occhio non allenato i sottili trapassi di un percorso all’apparenza ripetitivo, astratto dall’inizio alla fine. Il Museo del Novecento ha scelto questa strada più efficace che richiede un rigore curatoriale come quello messo in campo da Maria Grazia Messina e Anna Maria Montaldo con Giorgia Gastaldon. Tre donne per descrivere con settanta opere, oltre a fotografie e documenti dall’Archivio Accardi Sanfilippo, la prima pittrice astrattista italiana a ottenere un ampio riconoscimento internazionale.
La prima sala delle nove allestite in sequenza cronologica si presenta come un prologo corale che inquadra la Accardi, nata a Trapani da una famiglia benestante che assecondò il suo precoce talento artistico mandandola a studiare anche a Firenze e Roma, nel suo ambiente culraccontare turale: il gruppo Forma, di cui fu l’unica donna, assieme a Dorazio, Perilli, Consagra, Turcato e Sanfilippo (quest’ultimo diventerà suo marito). Tutti astrattisti contro i quali polemizzavano i figurativi come Guttuso e Scipione, sostenitori del neorealismo e del realismo socialista. La diatriba, infatti, non era solo artistica: nella Roma degli anni Cinquanta era soprattutto politica, e nelle polemiche si inserivano giornali come «L’Unità» o «Rinascita» dove nel 1952 fu pubblicato il famoso articolo che sconfessava l’astrattismo perché all’arte spettava il compito di la realtà sociale. E tuttavia anche il gruppo dei giovani di Forma, che ebbe il merito di riconnettere l’Italia al circuito europeo delle idee, aveva l’ambizione, spiegava la Accardi, «di cambiare il mondo con il marxismo, la psicanalisi, ma anche con l’astrattismo».
Negli anni Settanta l’artista si dedicò poi a un progetto femminista insieme con Carla Lonzi e tutte queste esperienze si riverberarono nella produzione artistica. «Sono preoccupata dal rapporto fra il significato del mio lavoro e il mio tempo», diceva. Di sala in sala, la mostra registra i cambiamenti stilistici: dai «Negativi», contrasti di bianscenti chi e neri notati dal critico francese Michel Tapié che nel 1954 inserì la Accardi tra i protagonisti dell’art autre, affiancandola a Burri, Capogrossi e Fontana; ai grandi formati ispirati dalla cartellonistica pubblicitaria di fine anni Cinquanta; dai colori accesi e a contrasto mutuati dalle luci al neon e fluoredegli anni Sessanta, all’abbandono della tela per l’impiego del sicofoil, i fogli di plastica trasparente. «Un percorso progressivo verso l’alleggerimento del segno per fare in modo che l’opera liberasse soprattutto luce», spiega Maria Grazia Messina. Fino al ritorno negli anni Ottanta alla pittura con nostalgie di Matisse. Così la mostra, tenendo insieme arte e società, sostanzia e rende intelligibili le complesse sfumature di un’artista che piace per l’apparente facilità decorativa.