«Pronto soccorso, stop all’assalto»
Appello dagli ospedali in crisi: troppi pazienti non gravi. Visite parenti vietate in tutte le Rsa. Oggi le altre misure
Continua a essere forte la pressione sui Pronto soccorso degli ospedali milanesi. A Niguarda si presentano in media 30 pazienti sospetti al giorno «e l’80 per cento ha bisogno di un ricovero». Ma anche il San Carlo è già sotto stress: «Si presentano troppi casi assolutamente non gravi». E per invertire questa rotta c’è la richiesta di chiudere tutte le attività che non sono veramente necessarie. Al Sacco è stato già bloccato l’accesso ai pazienti non Covid.
Intanto sono state interrotte tutte le visite dei parenti agli ospiti delle residenze per anziani. E per domani sono attese le nuove misure restrittive e precauzionali disposte dalla Regione.
Che tempo che fa, loro sono costretti a scoprirlo prima. E non c’è nulla di particolarmente consolante. Per questo il punto di vista dei Pronto soccorso è decisivo per capire cosa e come sta succedendo in questa metropoli, dove solo fino a una settimana fa si vedeva il virus scegliere altre traiettorie del Paese, ingannando per l’ennesima volta chi sosteneva che da queste parti si era già dato fin troppo in termini di sofferenze e vite umane. «Noi siamo un po’ come la portineria dell’epidemia e quello che vediamo passare in questi giorni ci porta a dire che qualcosa per invertire la rotta va fatto ora, subito», racconta Francesca Cortellaro, primario del Pronto soccorso dell’ospedale San Carlo. Lei che a marzo in poche ore vedeva il suo reparto riempirsi come un tetris e gridava allo tsunami, cerca di spiegare e di spiegarsi quest’improvvisa impennata sotto la Madonnina partita lo scorso weekend. Quando era in viaggio verso Roma e le hanno fatto capire che era meglio facesse retromarcia e tornasse subito indietro, perché le ambulanze cominciavano a mettersi in coda. «La gente si stupisce che da un giorno all’altro i numeri siano tornati a crescere in maniera esponenziale — continua Cortellaro —. Ma non è una cosa strana dato che parliamo di una metropoli. Il tasso di contagio non è paragonabile a quello delle valli bergamasche».
La mente torna a certi giorni di marzo. Quando dopo il primo tampone del paziente 1, il contagio iniziò a martellare nel Lodigiano, nella Bergamasca e nel Bresciano. Con l’assessore del Welfare Giulio Gallera che in ogni punto stampa non smetteva di ricordare come Milano non dovesse cadere con quella intensità nella morsa. Una Maginot per evitare che il disastro potesse diventare più disastro di quello per cui si era fatto conoscere. Oggi lo scenario è ribaltato. E Milano, con tutta la sua provincia fatta di oltre 3 milioni di bersagli umani, cerca di invertire la rotta prima che parta quel brutto film già visto. Così dai Pronto soccorso si alza un grido forte e chiaro in direzione delle istituzioni: fare qualcosa di netto adesso. Chiudere la ricreazione: tutto quello che non è veramente necessario. Spegnendo da subito quel ritmo da Milano da bere che aveva portato i ragazzi, ma non solo quelli giovanissimi, a vivere l’onda lunga e libera di un’estate fin troppo brava. E non importa se questa si possa catalogare come seconda ondata. «Va presa veramente sul serio — spiega il primario del Pronto soccorso del San Carlo —. Dobbiamo fare in modo che qui arrivino davvero i casi da ospedalizzare. Per questo è necessario chiedere uno sforzo a medici di base e alle Usca. Questo deve restare il luogo delle emergenze. La prima linea sul territorio deve consentire di filtrare i casi che si possono isolare e monitorare a casa».
Fa effetto ritrovarsi a ripetere tante cose già dette o comunque già sentite. Eppure le scene di queste ore sono quelle di un sistema che si riscopre meno rodato e muscoloso di quello che pensava di essere. Nell’ultima settimana il flusso di chiamate al 118 non è cambiato in termini assoluti. Però le telefonate entranti sono quasi tutte a tema Covid, soprattutto nell’area di Mila
no e in quella di Varese e Monza Brianza. All’aumento delle segnalazioni per patologie respiratorie, in maniera direttamente proporzionale, corrisponde un calo degli habitué del codice verde. Quelli che al minimo acciacco alzano la cornetta e ora visto il clima che tira preferiscono ascoltare di meno le proprie ipocondrie.
Se a marzo era una guerra, oggi comunque è una dura battaglia. Che molti pensavano fosse evaporata con i primi caldi. Anche a Niguarda il clima è quello di una trincea. «Era difficile non immaginarselo vedendo quello che succede nel resto d’Europa: una ripresa fisiologica dopo le riaperture post lockdown. Mi preoccupa che nessuno l’abbia messo in conto», attacca Andrea Bellone, responsabile del Pronto soccorso di Niguarda. Dove per dare un’idea del traffico, si è passati da una media di 4/5 passaggi a settimana a una trentina al giorno. Con l’80 per cento che necessità di un ricovero. E allora che fare? Si chiedono anche quelli che dell’ottimismo avevano fatto una stampella esistenziale. «Viviamo una fase diversa rispetto a marzo. Arriva un’onda di pazienti con patologie respiratorie, ma che nella grande maggioranza dei casi non necessitano di rianimazione. Ma di ossigeno a bassi flussi, cortisone e anticoagulante. Li curiamo con un uso più razionale dei farmaci. Ma la gente deve dimostrare responsabilità, devono capire lo stress del settore sanitario. Non possiamo tornare a una visione ospedalecentrica», aggiunge Bellone. Che anche ieri ha vissuto una giornata difficile. Un taglia e cuci tra reparti, turni ribaltati, straordinari chiesti a colleghi, spazi riconvertiti. Anche al Sacco da ieri sono cambiate le regole del gioco. Con i reparti di Pronto soccorso che accettano solo malati Covid, dirottando su altri ospedali della città i pazienti con altre patologie. Una tutela per chi non ha problemi di coronavirus. Ma soprattutto uno stato di necessità per il restyling dei reparti.