Cultura e serietà Addio a Ermolli uomo simbolo della borghesia
I ruoli di vertice (e la diplomazia) alla Scala, negli enti e nelle università
Amava la lirica e i cavalli. Era stato ai vertici di Fininvest e nei Cda di Mondadori e Fai, incarnando il culto per la serietà. È morto ieri il manager Bruno Ermolli.
La borghesia lombarda, nata nell’Ottocento insieme all’opera lirica, ha avuto nello storico vicepresidente della Scala, Bruno Ermolli, un volto che ne incarnava alcune caratteristiche: educazione, culto per la serietà e la solidità politica ed economica, conservatorismo liberale nonché passione, pur contenuta, per gli svaghi dell’alta società: l’opera lirica, i cavalli e la tenuta La Roseraie in Provenza a SaintTropez, meta-mito ai tempi della sua giovinezza.
Il «superconsulente», era nato a Varese nel 1939 e nel 1970 aveva costituito Sin&rgetica, primaria società nel settore della Consulenza strategica di impresa, quando ciò era un’attività all’avanguardia. Negli anni Ottanta diventò uno dei più noti consulenti aziendali delle maggiori società italiane, spesso ricoprendo cariche nei Consigli di amministrazione come in Camera di Commercio di Milano (si occupò a lungo dell’internazionalizzazione), Mediaset, Mondadori, Bocconi, Politecnico, Fai, Fondazione Milano per la Scala… Il lavoro di riassetto in Mediaset e Mondadori lo avvicinò all’amico Silvio Berlusconi, che a più riprese gli chiese di fare il ministro. Ermolli preferì continuare il lavoro di consulente anche per multinazionali, fondazioni e negli Enti pubblici. Questa scelta, e il suo atteggiamento conciliante, gli consentì di collaborare, anche a Milano, con sindaci di diverso orientamento politico. E sebbene in alcune legislature di centrodestra fu chiamato come esperto dalla Presidenza del Consiglio anche per gli oppositori Ermolli rimase l’uomo «con cui si poteva parlare».
Divenne così il più longevo e operativo vicepresidente della Scala, promotore del «Sistema Scala» (Piermarini,
Arcimboldi, Ansaldo), già nel Cda ai tempi del restauro del Piermarini e al fianco dei successivi sovrintendenti «stranieri», che scelse. Di Stéphane Lissner fece il nome una sera, confrontandosi e chiedendo, al solito, di non rivelarlo. Di Alexander Pereira si parlò a lungo su quali attività avesse svolto al Festival di Salisburgo.
Tra i compositori — lui così moderato e cauto — prediligeva Puccini che di donne, automobili e bizze ne aveva annoverate a bizzeffe. Fu tra i sostenitori delle serate del Festival pucciniano a Torre del Lago, dove si stava con la nipote del compositore. Nel 2001 aveva ricevuto l’onorificenza dell’Ambrogino d’Oro e nel 2002 il cavalierato per il lavoro. La calvinistica dedizione alla professione era il suo tratto distintivo, più che il dibattito pubblico: il suo ufficio aveva quelle doppie porte da film per non fare sentire a nessuno cosa ci si dicesse. Era il cosiddetto uomo del fare, con grandi capacità di mediazione e abilità nel trovare soluzioni senza mettersi in mostra. In questo rappresentava quella parte di imprenditoria che, dopo il boom industriale, si era impegnata nel mondo della consulenza e delle relazioni industriali. Viveva a Milano, ma non aveva tagliato i legami con Varese, dove ogni anno organizzava un concorso ippico in memoria del padre. In Costa Azzurra, dove trascorreva le estati, aveva dei vigneti da quali ricavava un delicato rosé. Era sposato con due figli di cui uno, Alessandro, continua l’attività. Era malato da tempo e da qualche anno non conduceva vita pubblica. I funerali si svolgeranno questo pomeriggio nella Chiesa di San Marco, che vedeva ogni giorno dal suo ufficio.
Consulenze pubbliche e private Lavorò per aziende, istituzioni e multinazionali: incarnava la serietà della borghesia lombarda