Spedizione punitiva contro l’imprenditore Clan condannato
Fu una spedizione punitiva, feroce e sanguinaria, portata a termine a Malta dal clan della potente locale di Legnano-Lonate Pozzolo con il metodo mafioso ai danni di un imprenditore italiano che venne ridotto in fin di vita per non aver pagato un lavoro edile di appena 2.900 euro: la Corte d’appello accoglie il ricorso del pm della Dda milanese Alessandra Cerreti e, modificando in modo sostanziale l’esito del primo grado, condanna mandanti, autori e complici di quel pestaggio e di una serie di altri reati seguendo l’accusa originaria. Nel 2020 le indagini portarono all’arresto di Francesca Rispoli, figlia del boss Vincenzo, e di altre persone per reati che, oltre all’estorsione, andavano dalla corruzione al favoreggiamento, dallo spaccio di droga alla detenzione di armi ed esplosivi. I giudici d’appello, accolgono l’impostazione ripercorsa dall’avvocato Avvocato generale Lucilla Tontodonati aumentando notevolmente le pene che in primo grado erano state ridimensionate dalla derubricazione del reato di estorsione in quello di
Ferocia a Malta Ritorsione mafiosa per il pagamento di un lavoro edile da soli 2.900 euro
esercizio arbitrario delle proprie ragioni e dall’ esclusione dell’aggravante mafiosa. Per questo, Rispoli viene condannata a 4 anni, 5 mesi e 10 giorni di carcere, il suo compagno Giovanni Lillo a 10 anni e 8 mesi, gli zii Michele e Giuseppe Di Novara a 8 anni ciascuno (era loro la ditta che reclamava il credito a Malta). Condannati anche l’imprenditore Cataldo Santo Cassopero, a 5 anni e 4 mesi, e Riccardo Lazzari, 4 anni, un geometra Anas che sarebbe stato corrotto dal primo dopo che un cantiere stradale dell’impresa era stato bloccato da due ispettori per delle irregolarità. In primo grado erano stati entrambi assolti. «Qui di colleghi miei un po’ sceriffi ci stanno però, (...) finché ci sto io che tengo le redini, regge il sistema», diceva Lazzari al telefono intercettato.
Il pestaggio, scrisse il gip Alessandra Simion ordinando gli arresti, fu una «prova di forza» con cui nel gennaio 2020 la cosca lombarda voleva far capire, con un segno inequivocabile della sua indipendenza, alla ‘ndrangheta calabrese, che non aveva preavvisato, che meritava «timore e rispetto».