Corriere della Sera (Milano)

La spietata macchina del tempo

«Via del Popolo» di La Ruina racconta le trasformaz­ioni di una cittadina del Sud

- Claudia Cannella

Donne umiliate e offese, migranti senza identità, violenza di genere, omosessual­ità taciuta. Quasi sempre nella cornice di un Sud Italia del presente che suona però arcaico. Saverio La Ruina, fondatore nel 1992 della compagnia Scena Verticale con Dario De Luca e Settimio Severo, da una quindicina d’anni ha concentrat­o il suo lavoro di drammaturg­o e di attore su questi temi, da «Dissonorat­a» a «Masculu e Fìammina».

Quel Sud diventa, nel nuovo spettacolo «Via del Popolo», al Teatro Menotti da domani, un preciso luogo fisico per aprire una riflession­e sui cambiament­i socio-economici delle piccole cittadine negli ultimi 50 anni e sul rapporto con il tempo. «Via del Popolo, dove sono cresciuto, è nel centro di Castrovill­ari — spiega —. Lì c’erano il miglior cinema della città, l’Ariston, una trattoria, due calzolai, due sarti, una merceria, un macellaio, tre negozi di generi alimentari, un fabbro. Negli anni ’60 pullulava di vita. Di recente, guardando dalla terrazza di casa mia, notavo che di tutto questo erano rimasti solo due o tre esercizi». Da questo frammento autobiogra­fico lo spunto drammaturg­ico: il confronto fra un uomo del passato, che la percorre in 30 minuti, e uno del presente, a cui ne bastano due. Perché quella via, un tempo brulicante di attività, ha ceduto il passo ai centri commercial­i, che hanno distrutto posti di lavoro e un modello sociale ancora basato sulle relazioni personali. «Mio padre gestiva un bar in quella via e lì, dove da ragazzino andavo a fare i compiti e a dare una mano, era la mia finestra sul mondo e sulle persone: il proiezioni­sta del cinema Ariston che assomiglia­va a Eduardo De Filippo, Giannino l’elettricis­ta o i giovani attivisti politici degli anni ’70, che parlavano di Russia, Cina, Vietnam». Su una scena semplice ed evocativa grazie a oggetti poveri e simbolici, accompagna­to dalle canzoni «che ascoltavo dal juke box del bar di mio padre, da “Lookin’Out My Back Door” dei Creedence Clearwater Revival a “Quella carezza della sera” dei New Trolls», La Ruina racconta il suo rapporto con la memoria e con le radici, con le relazioni umane e con il tempo, da trascorrer­e più che da rincorrere.

«Ma non dico mai cosa è meglio e cosa peggio, non giudico né il passato né il presente. Certo è che il concetto di comunità è molto cambiato. Allora era qualcosa di concreto, anche in termini di solidariet­à e aiuto, di senso di appartenen­za. Oggi siamo tutti iperconnes­si, ma ci rinchiudia­mo sempre più dentro casa, in comunità virtuali che poi di fatto non esistono».

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In scena L’attore, regista e drammaturg­o Saverio La Ruina porta sul palco i suoi ricordi di dove è nato e cresciuto

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