«Noi orfani di femminicidio abbandonati dallo Stato Papà? Non si è mai pentito»
Il figlio di Olga Granà uccisa nel ‘97: porto la sua storia nelle scuole
Uccisa in strada a colpi d’ascia dall’ex marito: quella di Olga Granà è la cronaca di una morte annunciata. «Mia mamma diceva sempre: io so che mi ammazzerà. Alla fine è successo». Il 26 luglio 1997, ad Albizzate in provincia di Varese: all’epoca Giuseppe Delmonte aveva 19 anni. Adesso ne ha 47, vive a Milano, dove lavora come strumentista di sala operatoria e ha creato «Olga», associazione nata nel nome di sua madre e il cui acronimo sta per «oltre la grande assenza: quella di mia mamma, della politica, di educazione».
Che ricordi ha di quel giorno?
«Ho appreso la notizia un’ora dopo il delitto tornando a casa: se ce lo aspettavamo? Sì, stiamo parlando di un matrimonio molto violento durato 24 anni. Quando è stata uccisa, mia mamma si era già separata da 5 anni ma era vittima di stalking: alla fine mio papà è riuscito ad ammazzarla. Lui era come dottor Jekyll e mister Hyde: agli occhi della società una persona perfetta, tra le mura di casa un mostro».
Sua mamma aveva denunciato?
«Più volte, fino a una settimana prima dell’omicidio: mio papà la minacciava di morte, ma all’epoca non esisteva neanche il termine femminicidio e soprattutto non c’erano leggi che tutelavano queste donne, abbandonate a loro stesse (la legge sul femminicidio risale al 2013, il Codice Rosso al 2019,
E suo papà?
ndr)».
«È riuscito a fuggire per quattro giorni: noi tre fratelli siamo stati sotto scorta perché c’era un testimone, colui che gli affilò l’ascia la sera prima dell’omicidio, che disse alle autorità che mio padre aveva intenzione di uccidere tutta la famiglia. Poi é stato arrestato e condannato all’ergastolo. Ma anch’io ho il mio ergastolo: quello del dolore».
Lo ha più rivisto?
«In carcere dopo 22 anni, ma ho capito subito che avevo di fronte la stessa persona che avevo lasciato a 13 anni quando
i miei si erano separati: un narcisista patologico, concentrato solo sul suo benessere e al quale manca la percezione del dolore altrui».
Cosa gli ha detto?
«Gli ho chiesto: ti sei reso conto che mi hai rovinato la vita? Per la prima volta l’ho visto abbassare gli occhi … ho capito che non era veramente pentito, diceva di esserlo solo perché voleva che il Presidente della Repubblica gli concedesse la grazia. Ma noi figli ci siamo opposti perché non era sincero. Adesso non ho più nessun rapporto».
Lei ha due fratelli più grandi, cos’è stato di voi subito dopo l’omicidio?
«Erano anni in cui gli orfani di femminicidio non erano presi in considerazione: siamo stati abbandonati dalle istituzioni sia dal punto di vista psicologico (ho fatto terapia pagando di tasca mia) sia da quello economico. Io ero maggiorenne, quindi mi sono dato da fare e ho iniziato a fare diversi lavori per mantenermi, pagare affitto e bollette, ma mai nessuno ci ha dato una mano».
La legge che tutela gli orfani a causa di crimini domestici risale al 2018.
«È un primo passo ma non è sufficiente: in Italia gli orfani di femminicidio non sono neanche censiti, non si sa quanti siano. E poi, cosa che trovo imbarazzante, sono le vittime che devono chiedere i risarcimenti, mentre dovrebbe essere il contrario: lo Stato dovrebbe andare dagli orfani. Mi batto perché venga modificata, migliorata».
Com’è nata la onlus Olga? «Da due anni e mezzo porto la mia testimonianza in giro per le scuole: i giovani sono molto interessanti a questo argomento. Così ho coinvolto una serie di professionisti esperti per contrastare ogni forma di violenza e parlarne nelle scuole».
Lei è molto attivo ….
«L’indifferenza uccide, come quella dei nostri vicini di casa ... ».
Un docufilm racconta la sua storia….
«Ogni volta che lo vedo è una pugnalata allo stomaco: questo trauma è stato difficile da superare, se mi chiedevano dei miei genitori rispondevo che ero orfano. Ci sono voluti anni di terapia».
La grazia
Lui l’ha chiesta al Presidente della Repubblica, io e i miei fratelli ci siamo opposti