Venticinque anni senza Alberto Moravia
Nel 1990 la scomparsa nella casa sul lungotevere, cuore della sua città borghese
Alberto Moravia: Roma 28 novembre 1907 la data di nascita; Roma 26 settembre 1990, la data di morte (25 anni fa giusto ieri); Roma Lungotevere della Vittoria 1, l’indirizzo della sua ultima residenza. E in quelle stanze affacciate sul quartiere Flaminio il corpo dello scrittore fu ritrovato senza vita alle 9 di mattina. Lui, uno dei più internazionali ma anche, appunto, uno dei più intrinsecamente romani tra i nostri scrittori.
Maguy Marin e Samuel Beckett, era scritto nel dna e nell’opera di ciascuno dei due che i loro destini s’incrociassero. È successo nel 1981, quando la coreografa punto di riferimento per la danza contemporanea, dallo spiccato interesse per una condizione umana dove i derelitti e i senza potere hanno un posto di primo piano, ha immaginato «May B», ispirato all’opera del drammaturgo irlandese.
Martedì e mercoledì alle 21 lo spettacolo sarà in scena al Teatro Argentina, per il Romaeuropa festival. Una sorpresa per lei — allora giovane e ancora poco conosciuta coreografa — ricevere l’approvazione dello scrittore che aveva vissuto nelle macerie della Francia del Sud, fuggendo dai nazisti. Storia più drammatica, ma non dissimile dalla sua, nata a Tolosa da genitori spagnoli in fuga dal regime di Franco, e certamente è anche questo ad aver acuito la sensibilità per un teatro civile, di resistenza.
«Non m’aspettavo certo una risposta — ha raccontato Marin — quando chiesi a Beckett il permesso di adattare il suo lavoro. Lui invece mi invitò addirittura a incontrarlo, per discuterne». Quel che ne è nato è ormai un classico della danza, con quei volti di dieci ballerini imbiancati d’argilla, le vesti ugualmente terree, fissi su un futuro che li sfiorerà senza mai appartenere loro veramente, orda di derelitti alla deriva come sulla Zattera della Medusa di Gericault.
Un’umanità ora scossa da pulsioni sessuali primordiali, ora tenera e comica, alienata e assurda, pronta a tradurre in gesti il linguaggio musicalmente connotato di Beckett. Un alternarsi di silenzi, pagine musicali da Schubert a Gavin Bryars e parole, poche, sussurrate: un accenno da «Finale di partita» di Beckett, il motto usato da Hamm quando si appresta ad affrontare in solitudine il «vecchio finale di partita persa, finito di perdere».
Così la Pina Bausch di Francia, com’è stata definita, per anni nella compagnia di Maurice Béjart, ha portato avanti un discorso coerente, proseguito autonomamente nella residenza di Rillieux-la-Pape, poi nel centro delle arti di Sainte-Foylès-Lyon. «Lo spostamento — ha spiegato la coreografa, indicando problemi comuni a qualsiasi formazione oggi dedita alla sperimentazione in Italia — dovuto a ragioni di disponibilità e sostenibilità degli spazi, si è rivelato per noi un arricchimento. Il progetto che abbiamo chiamato Ramdam è un pentolone colmo d’acqua che ribolle, sostenuto da un pensiero artistico e intellettuale che va oltre la pura e semplice immaginazione coreografica. Qui ci si allena ogni giorno a vedere, capire, sentire, pensare, dire, con gli occhi di artisti provenienti da ogni parte del mondo. La creazione ha bisogno di tranquillità: qui la trovano. Le idee per essere feconde devono maturare con calma: qui il tempo scorre lento».
Eccola, l’ultima frontiera della sessantaquattrenne signora della danza, impregnata di tradizione («May B» non prescinde) ma ugualmente capace di lucidissimi sguardi sul mondo contemporaneo: «Ho con la storia un rapporto molto stretto — ha dichiarato —. Sono attratta dal mito e m’interessa tutto ciò che attraversa le epoche senza esserne scalfito, ma nella misura in cui si può ricondurre l’idea ancestrale a preoccupazioni moderne, alla vita che io conduco, all’ambiente dove io vivo e lavoro. Così è stato ad esempio con Cendrillon (per il balletto dell’Opéra di Lione, ndr). Ci sono questioni che assillano gli uomini ovunque essi siano, storie che si trasmettono di generazione in generazione, di cultura in cultura». Da qui alla proposta politica il passo è breve, a costo di arrivare alla negazione della danza, come può apparire in «Singspiele», un suo recente lavoro dell’anno passato: «In un momento in cui il capitalismo si gloria d’aver vinto su tutti i fronti, ci sono resistenze multiple e diverse di cui l’artista si fa portavoce, dando coraggio a chi ha ancora voglia di cambiare il mondo. Assistere a uno spettacolo, ammirare le opere esposte a una mostra, è una forma di resistenza attiva. Resistere creare».
Creazioni Il mio rapporto stretto con il mito e con la storia Mi interessa tutto ciò che attraversa le epoche