Le fotografie di Andy Rocchelli a Trastevere
Museo di Roma in Trastevere, in cento scatti l’occhio testimone del fotoreporter Rocchelli
Aveva trent’anni Andy Rocchelli, e un figlio di due, quando fu ucciso da un colpo di mortaio nella città di Sloviansk in Ucraina, il 24 maggio di un anno fa. Un giorno di sabato. Non si è mai saputo se il colpo sia partito dall’artiglieria filorussa o da quella dell’esercito ucraino. Andy era insieme al suo interprete russo, Andrei Mironov, ucciso anche lui. Era partito dieci giorni prima da Pianello, un paesino ai piedi dei colli piacentini, per raccontare la guerra.
A Pianello c’è la sede di Cesura, il collettivo di fotografi che lui aveva contribuito a fondare. Lavorava per la Bbc, per il Times. In Italia le sue foto non le comprava nessuno. «Dicevano che c’era troppa violenza, troppa verità. Sono foto dure, la guerra è dura», raccontano i colleghi di Cesura, che hanno organizzato una mostra itinerante con i suoi scatti. Si intitola «Andy Rocchelli Stories» e arriva ora negli spazi appena rinnovati del chiostro seicentesco del Museo di Roma in Trastevere, dove resterà aperta fino al 15 novembre.
Promossa dall’assessorato capitolino alla Cultura in collaborazione con 3/3 e con il patrocinio dell’ambasciata di Svizzera in Italia e di SpazioReale di Monte Carasso, Cantone del Ticino. Ripercorre due temi approfonditi dal fotoreporter tra il 2009 e il 2014: la crisi del Mediterraneo e la disgregazione dell’Unione Sovietica. Con un centinaio di scatti tra sequenze fotogiornalistiche sulla rivoluzione ucraina, sulla primavera araba, sulle violazioni dei diritti umani in Kirghizistan, e lavori personali sulla ricerca del sacro, sulla condizione femminile in Russia e sull’effetto della guerra sui civili.
Andy segue il filo dell’incerto vivere dei migranti, dai tentativi di fuga da una Libia in rivolta alla vita nelle baraccopoli calabresi. Insegue le tracce dei giovani ribelli che dal confine egiziano cercano di raggiungere Misurata e gli altri centri di quella che allora si acclamava come una rivoluzione per la democrazia. E ne documenta la progressiva disillusione. Racconta le conseguenze sui civili del conflitto etnico in Kirghizistan, seguendo in Inguscezia i militari che rivendicano la lontananza sociale e culturale dei popoli caucasici dal potere russo. Documenta in Ucraina le proteste sfociate in un epilogo sanguinoso, dai fatti di piazza Maidan all’assedio di Sloviansk da parte delle milizie filorusse. Proprio a Sloviansk, dove avrebbe vissuto il suo ultimo giorno, scattò una delle immagini più toccanti: quella dei bambini rifugiati nelle cantine del basso Donbass, stipati dentro una specie di scatola scoperchiata, tra gli scaffali con i barattoli dei pomodori in salamoia, lo sguardo rivolto in alto verso il fotografo, increduli più che spaventati. In mostra anche la serie «Russia Interiors», con le donne riprese nell’intimità della loro abitazione, che a dieci mesi dalla morte gli ha valso il riconoscimento del World Press Photo nella sezione Ritratti. Raccontava come la sua fosse ricerca di storie, più che semplice cronaca: «Cerchiamo documenti e ogni cosa può essere un documento, una foto, un bossolo, un sasso. Io mi limito a fare degli scatti, senza pregiudizi».