«Casa di Leda» la storia di un progetto antimafia
Fa
più rumore un bambino che gioca, di un mafioso che fa affari. Succede a Roma, dove un progetto per l’istituzione di una Casa famiglia protetta, in un bene confiscato alla mafia, suscita proteste che arrivano fino in Parlamento. La ricostruzione dei fatti è un po’ noiosa, ma serve a dire che tutto è stato fatto secondo le regole.
(*) ex assessore Roma alle politiche sociali, abitative
Su invito del Tribunale di Roma, la Giunta capitolina, nel maggio 2015, ha espresso interesse per l’assegnazione in comodato d’uso gratuito delle ville di Via Algeria e di Via Kenya, sottratte alla Mafia. L’obiettivo era realizzare una struttura per madri detenute con figli ai sensi della Legge 21 aprile 2011 n. 62. In giugno il tribunale ordinario di Roma ha consegnato gli immobili. È stato quindi firmato il protocollo d’Intesa tra Ministero della Giustizia, Comune di Roma e Fondazione Poste Insieme onlus, per l’attivazione della casa famiglia. Nell’ottobre 2015 il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria ha dichiarato l’idoneità della villa di via Kenya 72, e successivamente ha istituito il Tavolo di coordinamento di quella che nel frattempo è stata chiamata Casa di Leda, in ricordo di Leda Colombini. Nel gennaio 2016, sempre il Dap, per conto del Ministero della Giustizia, ha sollecitato la realizzazione della Casa famiglia protetta. A febbraio la Direzione Dipartimento Politiche Sociali del Comune di Roma, ha approvato la lettera invito per l’acquisizione delle candidature ai fini dell’assegnazione dei locali (Determinazione Dirigenziale n. 433 del 04/02/2016). La lettera è stata pubblicata sul sito ed inviata alle associazioni che lavorano nel carcere di Rebibbia, regolarmente iscritte all’albo specifico. Questi i fatti. La casa famiglia non è ancora aperta. Ospiterà sei mamme con i loro bambini. Roma diventa così la prima città in Italia che realizza un progetto che rispetta i diritti dei bambini e offre alle mamme una concreta possibilità di recupero per un futuro reinserimento nella società. Tutto questo in ottemperanza ad una legge nazionale. Nel frattempo cinque detenuti – tre uomini e due donne – che hanno ottenuto il permesso al lavoro, sono impegnati per la pulizia e il riordino del giardino e per piccole manutenzioni interne. Non appartengono a nessuna cooperativa, ma sono stati selezionati dal Dap e dalla direzione del carcere. L’altro immobile, quello di Via Algeria, è attualmente in attesa del cambio di destinazione d’uso, che è stato regolarmente richiesto, e sarà messo a disposizione del Comune di Roma che vi riallocherà alcuni servizi già in essere, risparmiando così sui costi dell’affitto di altre sedi. All’obiezione che questo progetto potrebbe avere un impatto negativo sulla sicurezza del quartiere, rispondo che la presenza di esponenti mafiosi sul territorio non era certo rassicurante. A chi teme che un progetto di civiltà come questo possa svalutare il valore degli immobili, ricordo una vicenda di 25 anni fa, quando Mons. Luigi Di Liegro, con il quale collaboravo, progettò di aprire una Casa di accoglienza per persone affette da Aids a Villa Glori. Gli abitanti fecero una lunga battaglia per impedirlo. La Casa è stata aperta, non ha mai creato problemi, gli immobili dei Parioli sono cari oggi più di allora. Credo fortemente in questo progetto: questa è davvero Antimafia Capitale, questi sono gli anticorpi di cui Roma ha bisogno. Ringrazio quindi tutti coloro che hanno collaborato a questo progetto e che ancora lo stanno portando avanti.