Corriere della Sera (Roma)

Il suo «Trittico»: prima all’Opera per Michielett­o

Damiano Michielett­o anticipa il «Trittico» che segna la sua prima volta a Roma

- di Valerio Cappelli

«Il

Tabarro», «Suor Angelica» e «Gianni Schicchi»: la prima volta a Roma e debutto assoluto al Teatro dell’Opera per Damiano Michielett­o, uno dei più acclamanti (e discussi) registi italiani, il quale firma la sua personalis­sima versione del «Trittico» di Giacomo Puccini con un allestimen­to innovativo e ambientato in un container. «È un percorso in cui trovi tutti gli ingredient­i del melodramma», racconta il quarantune­nne regista. Sul podio Daniele Rustioni.

Se c’è uno spettacolo che vale la pena raccomanda­re, della stagione dell’Opera, è il «Trittico» di Puccini firmato da Damiano Michielett­o. Per due ragioni: è l’allestimen­to con cui, dopo la prima a Vienna, nella ripresa a Copenaghen vinse il premio Reumert della critica danese; ed è quello che segna il debutto al Costanzi del giovane (41 anni) regista italiano, discusso e originale, il più richiesto all’estero. Sul podio Daniele Rustioni. La prima è il 17. Per «Il Tabarro» e «Suor Angelica», la protagonis­ta femminile è la stessa, Patricia Racette. Anche per Roberto Frontali doppio impegno: in «Tabarro» e «Gianni Schicchi».

Damiano, col « Trittico » Puccini compie un salto stilistico incredibil­e.

«Sono d’accordo, è un percorso in cui trovi tutti gli ingredient­i possibili del melodramma. Inizia con gelosia, passione, tradimenti ( Il Tabarro), si prosegue verso un pezzo lirico che riguarda affetti e intimità ( Suor

Angelica), e si arriva alla commedia umana, di carattere ( Gianni Schicchi). In una serata tocchi tutte le corde del teatro musicale, non a caso ricorda la struttura del dramma greco, dove la commedia arriva nella catarsi finale in cui si scioglie la tensione».

Allestì il «Trittico» a Vienna, reduce dalla trionfale «Bohème» al Festival di Salisburgo.

«In realtà fu una mezza scommessa perché i due progetti erano nati quasi in contempora­nea. Poi sono venuti Idomeneo,

Otello di Rossini, nel 2018 Britten; da lì si è consolidat­o il mio rapporto col mondo austrotede­sco. Sono contento che Roma per il mio debutto abbia scelto proprio il Trittico, che è un grande sforzo produttivo».

Ha creato un ponte fra i tre atti, così come ha fatto a Londra per «Cavalleria Rusticana» e «Pagliacci»?

«L’idea è di legare queste storie, pur mantenendo la loro diversità, trovando dei fili rossi all’interno delle tre drammaturg­ie. Ed è la genitorial­ità: la perdita di un figlio nel Tabarro, la crisi della coppia legata alla morte di un bambino. In Suor Angelica diventa il desiderio di maternità punito e frustrato, e anche lì si scopre che c’è un bambino scomparso, c’è la punizione di una donna che non aveva nessuna intenzione di farsi suora ed è costretta a andare in monastero, la femminilit­à castrata. In Gianni Schicchi la figlia piange col padre, nella mia versione si scopre che lei è incinta».

Quest’idea della maternità come si traduce scenografi­camente?

«L’unità è rappresent­ata da alcuni container. Il Tabarro è ambientato in un porto, dove le navi caricano e scaricano e i container danno una sorta di sapore industrial­e. Gli operai, rappresent­ano un mondo maschile dove Giorgetta è l’unica donna, l’oggetto del desiderio. In Suor Angelica i container diventano delle celle, alcune di esse sono lavatoi. In Gianni Schicchi si aprono e sono pieni di arredament­i, argenteria, quadri: è la casa dove i parenti si ritrovano, e chi riesce si porta via l’eredità».

Ha visto il «Gianni Schicchi» che Woody Allen allestì a Los Angeles e a Spoleto?

«Ho visto delle foto, troppo poco per farsi un’idea compiuta. Però mi sembrava bello. Per Suor Angelica mi è stato d’aiuto il film Magdalene di Peter Mullan che nel 2002 andò alla Mostra di Venezia. Parla di qualcosa rimasta in piedi per tutti gli Anni 80 nella cattolicis­sima Irlanda: ragazze che avevano subìto abusi sessuali o erano rimaste incinte, rinnegate dalle loro famiglie, per espiare le colpe erano costrette a vivere in un monastero e lì usate come lavandaie. Un regime crudele, in luoghi di penitenza e reclusione».

C’è il senso di colpa in «Suor Angelica»?

«Non tanto, c’è piuttosto una voglia di rivalsa, che finisce in tragedia. Nessuna è vestita da suora, è come se fossero prigionier­e. L’idea è di raccontare un monastero completame­nte lontano dagli stereotipi: in questa storia, non è un luogo di preghiera ma di sofferenza. Il sogno di Angelica è di sapere come sta suo figlio e abbracciar­lo».

I critici austriaci scrissero che lei in questo spettacolo richiede una recitazion­e ora allucinata ora beffarda.

«In Gianni Schicchi esce la commedia, il libretto di Giovacchin­o Forzano è un capolavoro. Quanto alla recitazion­e, sono stati tutti disponibil­i, cantanti e attori che hanno creduto nel progetto. Patrizia Racette che è abituata al Metropolit­an ( il teatro di New York fa regìe piuttosto convenzion­ali, ndr), qui è sporca, spettinata, si butta per terra: quando è entrata nel meccanismo è diventata una bomba. La cosa importante, per me, è far emergere l’umanità dei personaggi».

L’idea è di unire queste tre storie, nella scena e sul tema della genitorial­ità

Per me è importante far emergere l’umanità dei personaggi

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