Ricordate San Giovanni senza le gru?
Qui i lavori durano decenni e il cantiere chiuso è un evento. O per qualcuno un trauma
Le
strisce pedonali perfette e immacolate che gli operai stanno stendendo sull’asfalto freschissimo, fanno tenerezza al pensiero che quella zona lì fino a poco fa tempo era off-limits a causa degli enormi macchinari che svettavano nel cielo capitolino più alti dei palazzi attorno. Bisogna che tutto sia in ordine perché largo Brindisi, finalmente sgombrato dagli attrezzi che hanno scavato nel ventre di Roma, sarà riconsegnata alla città, alla gente, al traffico. Habemus una nuova stazione della metro C. Evviva. Considerati i tempi biblici che a Roma occorrono per fare ogni cosa – per dire: per il rilascio di una carte di identità ultimo tipo, quella elettronica, tra la prima volta che vai in circoscrizione per fissare l’appuntamento, la seconda volta che vai per prendere l’impronta del pollicione, la settimana di decantazione necessaria per avere il nulla osta della Questura e infine l’attesa della consegna a domicilio tramite posta ordinaria, un mesetto se n’è bello che andato, tanto che quello che ti guarda dalla foto già non sei più tu – è un evento di quelli che segnano una vita. I lavori che negli altri paesi si contano se non a mesi a semestri, qui da noi si contano a decenni. Sì, mi ricordo che quando i lavori stavano per iniziare e via La Spezia si poteva ancora imboccare da largo Brindisi stavo con la mia ex moglie. Sì, quando cambiò l’appalto del subappalto mi nacque il secondo figlio, e via evocando.
Non possiamo trattare questi turisti come salmoni che cercano di «risalire» la nostra storia, disseminando il loro percorso di dighe. Forse, cercando di spostare lo sguardo, potremmo cominciare a smettere di trattarli come salmoni. C’è un’intero sistema economico che prospera su queste invasioni: agenzie turistiche, guide abusive improvvisate, lo scandalo dei pullman a uno o due piani, coperti o scoperti. Tutto questo vive di «orde» e le vuole esattamente così. E in tutti questi anni abbiamo plasmato le nostre città per accoglierli solo in questo modo. Per vendere loro paccottiglia di souvenir, molto più facile e redditizia da piazzare rispetto a un catalogo. Infatti le rivendite di ninnoli «made in chissà dove» proliferano indisturbate, per aprire un bookshop nei nostri musei serve un miracolo e le librerie chiudono. In compenso questo flusso ininterrotto di turisti ansimanti vengono nutriti da una peste di pizzerie al taglio e una flotta di camion bar, che dovremmo deciderci a scegliere come simbolo delle nostre strutture culturali visto che vi stazionano liberamente davanti. Di cosa ci lamentiamo, parlando di Fontana di Trevi e del Colosseo, se un programma di valorizzazione delle infinite alternative di cui disponiamo non è stato mai proposto? Se è stato osteggiato ogni tentativo di limitare lo spaccio di pizza, il proliferare selvaggio di tavoli per piazzare spaghetti industriali precotti. Se ogni forma di difesa di un tessuto artigianale è stata travolta dall’indifferenza mentre i bus a due piani possono fare quello che vogliono. Se di librerie non si può neanche più parlare. Ha ragione il ministro Franceschini. Le nostre piazze storiche vanno protette, anche da chi avrebbe dovuto proteggerle.