Paiato, metrica d’eccezione per Pascoli orrendo-divino
Il divino Pascoli. L’orrendo Pascoli. Su uno dei nostri maggiori poeti ci si può dividere, lo si può amare in modo morboso, come lui amò (le sorelle), e lo si può detestare, proprio in ragione della sua patologia. Cesare Garboli rammentò un appunto: «Io non sono potuto crescere» - che rivela una consapevolezza da cui tuttavia non scaturì, in senso stretto, la poesia. Essa è per intero nella sua misteriosa lingua, «non registrata in nessun vocabolario» (Luigi Baldacci): il suo azzardo fu «trasportare nel dominio della poesia scritta ciò che era appartenuto al dominio dell’intuizione linguistica, al suo livello primo e nascente» - insomma alla pre-lingua, alla lingua di quel «puer aeternus» che Pascoli fu. D’altra parte, per accostarci un momento al Pascoli orrendo, è proprio Baldacci a rammentare «Il fanciullo mendico» come capolavoro di quasifollia: «Un bambino batte alla porta e chiede l’elemosina. Il poeta gli versa una lacrima tra i capelli; ma la lacrima scivola sulle guance del bambino. E allora, per tergerla, un bacio: un bacio di Giovanni Pascoli. L’umidiccio di quelle labbra che risucchiano la lacrima, mentre tra le povere dita sguscia il dono». A proporre un equilibrato ritratto del poeta è stata Maria Paiato, in questi giorni all’Eliseo nella commedia di Dürrenmatt «Play Strindberg». Siamo in casa Battaglini, ancora teatro d’appartamento – ma teatro di qualità. L’interprete, eccezionale nella scansione metrica dei versi proposti, del tutto asentimentale, riluttante a lasciarsi andare e cadere nella fossa in cui Pascoli ti attrae, rivela se stessa molto meglio che nello spettacolo di cartellone. Ha letto nove poesie. Solo due celeberrime, «Digitale purpurea» e «Il gelsomino notturno»; ma almeno «Casa mia» e «Mia madre» tra le vette supreme di Pascoli. Nell’insieme un’immagine traslucida, anzi trasparente di quel colloquio tra vivi e morti che è in «Myricae» e nei «Canti di Castelvecchio» la nota dominante.