Puma e american boy nipotini dello Spinario
Al Gianicolo mostra personale dello scultore Charles Ray
«L’idea di ricorrere a un puma mi è venuta camminando nel Parco naturale di Santa Monica. Lì se ne vedono molti, e così è scattato il mio interesse». Charles Ray ha la tipica aria di certi intellettuali statunitensi che sembrano adolescenti invecchiati di colpo: capelli lunghi, occhiali in metallo da studente da campus per upper-class, una macchina fotografica sempre pronta allo scatto, t-shirt e aria dinoccolata. Eppure ha 64 anni ed è una delle firme più apprezzate da musei e collezionisti privati forse anche per l’evidenza dei suoi rinvii all’arte classica. Il suo «Ragazzo con la rana» piazzato nel 2009 a Punta della Dogana a Venezia fece discutere mezzo mondo: era un dialogo con la grandezza della Serenissima o uno sberleffo?
Fino al 2 luglio l’American Academy in Rome al Gianicolo ospita la mostra intitolata Charles Ray/ Muntain Lion attacking a Dog. Un’opera nuovissima, del 2017, in vetroresina pronta a trasformarsi, in futuro, in un multiplo in metallo (ma Ray tiene a precisare che si tratta «comunque di un originale, come sono originali i gessi di Canova conservati alla Gipsoteca di Possagno e destinati a diventare pezzi in marmo»). E accanto «Shoe Tie» del 2012. Nel primo caso è un puma che sbrana un leone, versione (come è stato scritto) «vernacolare americana» dello straordinario prototipo classico «Leone attacca un cavallo», di mano greca, del 320 avanti Cristo circa, poi restaurato a Roma ben 1800 anni dopo, nel 1594 da Ruggero Bascapè, allievo di quel Michelangelo che ammirò moltissimo il gruppo oggi esposto ai Musei Capitolini. In quanto al ragazzo nudo intento ad allacciarsi i lacci di scarpe inesistenti, è cugino di primo grado del Ragazzo con la Rana ma è anche un discendente dello Spinario, il celeberrimo bronzo ellenistico del ragazzo intento a togliersi una spina dal
piede, anche quello esposto ai Capitolini.
Nonostante tanto retaggio, Charles Ray rifiuta l’etichetta di classicista: «Ho molto interesse per la scultura di quel periodo ma non è esclusivo. Non mi sento un classicista né un neoclassicista, come molti invece mi definiscono. Si tratta solo di un elemento, di un ingrediente per arrivare all’opera finita. Per esempio, le zampe del cane azzannato dal puma ricordano molto quelle viste in alcuni cartoni animati. In quanto all’originale del Campidoglio, mi ha sempre affascinato il fatto che piacesse molto a Michelangelo e che si trattasse di un ibrido, del frutto di un doppio intervento realizzato a secoli e secoli di distanza: l’originale greco, il ripristino alla fine del Cinquecento». Anche lei sembra convinto, Ray, che l’arte sia sempre e comunque contemporanea… «Ma certo. Un’opera non vive solo nello spazio ma anche nel tempo. Quando noi guardiamo un pezzo d’arte del passato, lo osserviamo e lo gustiamo con occhi profondamente diversi dai suoi tempi. Ci sono fattori, conoscenze ed esperienze che fanno parte di noi e ci offrono una prospettiva molto differente».
Il suo puma intento a sbranare un cane è chiaramente un simbolo, afferma Ray, «della natura selvaggia che sbrana un animale domestico, tutto questo è un aspetto fortemente locale che riguarda da vicino noi americani». Colpisce molto la scala ridotta… Ray sorride: «Il “più piccolo” aiuta a concentrarsi sull’idea di fondo, anche sul lavoro manuale, sui segni».
E cosa prova, signor Ray, guardando il cielo di Roma, la sua Grande Bellezza? Un lungo sospiro: «Penso che davvero tutte le strade portino qui, a Roma…».