Moda ed eleganza dagli anni Venti alla Seconda guerra
«L’Eleganza fascista» Documenti e foto nel libro di Sofia Gnoli sulla moda tra anni Venti e Seconda guerra
L’impulso decisivo, quanto forse inconsapevole, per il successo del made in
Italy, risale al regime fascista. Era intollerabile per Mussolini che «vanitose donne italiane», secondo statistiche ufficiali da lui commissionate nel 1931, acquistassero modelli di Chanel, Patou, Lanvin o Madame Vionnet importati dalla Francia. Un tema caldo per il Duce che su «Il Popolo d’Italia» nel novembre del 1932 scriveva: «Una moda italiana… non esiste ancora; crearla è possibile, bisogna crearla». Nasce così, nel 1935, l’Ente nazionale della Moda, prezioso seme che all’indomani della guerra rese fertile la straordinaria stagione degli atelier della Dolce vita anni Cinquanta.
Con il «Commentario Dizionario italiano della moda» del 1936 arrivano le «istruzioni per l’uso del linguaggio» che veniva epurato da tutte le parole straniere ancora in uso. Il tailleur diventa «completo a giacca», il golf «panciotto a maglia», lo chignon «cignone», il pied-de-poule «millezampe» e ancora i pois «pallini», le paillettes «pagliuzze», la silhouette «figurina», i volants «volanti», la trousse «scarabattola».
Tra curiosità, documenti, testimonianze e una ricca raccolta d’immagini d’epoca, il libro «L’Eleganza fascista» (Carocci) di Sofia Goli, giornalista, storica della moda e docente alla Sapienza,indaga le contraddizioni di un periodo storico in cui si soprapponevano scomodamente due ideali femminili. «L’immagine promossa dal regime ritraeva una donna prosperosa, una madre esemplare che aveva il compito di dare figli alla patria – racconta Gnoli ma contemporaneamente la incoraggiava a praticare sport e a impegnarsi fuori dalle mura domestiche rispecchiando l’antitesi tra un tentativo di modernizzazione, spesso velleitario, e il peso della tradizione e della conservazione». Le regole, sempre più rigide sul divieto d’importazione portano, nel 1940, alla «Mostra dell’abbigliamento autarchico di Torino» dove venivano esaltate «cascate di stoffe in tinte policrome, lane candide come il latte, velluti di Zoagli, coralli, gioielli, piume, fiori, tutto quel mondo gentile — si legge nella presentazione — che ora nasce e fiorisce tutto nella nostra bella Italia, guarita, forse per sempre, dalla malattia dell’esotismo». Poco prima, sostenute e rilanciate dalla propaganda fascista, nascono le cosiddette «fibre dell’indipendenza»: il rayon, il lanital (o lana di latte ricavata dala caseina), la lana di coniglio d’angora firmata Luisa Spagnoli, il ramì e lo spalto dell’Etiopia, il gelso o l’orbace di provenienza sarda. «Il nostro è il tempo dei surrogati — si precisa nella Rassegna dell’Ente Nazionale della Moda 1939 — la meravigliosa genialità del popolo italiano ha saputo supplire con la sua inventiva alla mancanza dei doni che la natura non ha concesso al nostro Paese». Irrinunciabile, nell’ estetica del Ventennio, la pelliccia, in tutte le fogge e per tutte le stagioni, purché rigorosamente nazionale. Così in mancanza dell’originale, ci si arrangiava tingendo il coniglio da leopardo, camuffando l’agnello da castoro, arrivando a trasformare in qualcosa di pregiato anche il pelo di gatto e topo. Nel libro, che martedì alle 18 sarà presentato da Pierpaolo Piccioli e Rossana Rummo a Palazzo Firenze presso la Società Dante Alighieri, Gnoli inserisce anche una frase di Irene Brin «che a proposito delle tendenze della moda del tempo — spiega — riportava una sorta di monologo interiore delle signore intenzionate a iniziarsi al lusso: “Non posso farmi le volpi, mi sono fatta le volpi, mi farà le volpi”». Per gli abiti da sera, invece, quasi sempre provvisti di strascico, l’ispirazione era classicheggiante con drappeggi e plissé che richiamavano l’antica Roma e l’Impero. Con l’abolizione «d’ufficio» dei pantaloni da donna nel 1940, complice la Chiesa, lo stereotipo dell’eleganza fascista fu rappresentata da una silhouette molto segnata sul punto vita e spalle accentuate. Tra gli accessori, scarpe con la zeppa, legate a Salvatore Ferragamo, primo inventore di calzature femminili. Anche in questo caso immancabilmente «nazionali»: suola di sughero e tomaia in rafia intrecciata.
Presentazione Martedì a Palazzo Firenze con l’autrice, Pierpaolo Piccioli e Rossana Rummo