La danza delle tenebre, fra Mishima e il butoh
Il nome della coreografa, Silvia Rampelli, non lo ricordavo. Ma quando ho letto che è lei ad aver fondato nel 2002 la compagnia Habillé d’eau mi è venuto in mente, forse sbagliando, il nome del teatro Fuio Camillo; e più tardi tra gli spettatori ho intravisto la sagoma del fondatrice di quel piccolo teatro glorioso, Marcello Sambati. Riguardo gli inizi di Rampelli, forse il soprassalto di memoria non era infondato. Ma per tutto l’arco dello spettacolo, «Euforia», in scena all’India, sono incorso in un errore sicuro. La ballerina è ferma, a braccia incrociate, i palmi delle mani ben visibili: si muove, cioè si allarga, il mignolo. Mi sono detto: sì, va bene, ma questo non è minimalismo; è beckettismo, il Beckett finale, il Beckett estremo degli atti senza parole. Invece sbagliavo. Silvia Rampelli è la coreografa che ha introdotto in Italia la tradizione giapponese, che viene da Kazuo Ono - e perfino da Yukio Mishima cui fu dedicato il primo spettacolo di danza butoh: la danza delle tenebre. Chi è più tenebroso, Beckett o Mishima? Io direi, Beckett non è affatto tenebroso; Mishima lo è del tutto e sempre. Dunque, niente morte del teatro-danza, cui m’ero messo a pensare, nessuna speciale metafisica o sofisticazione. Al contrario siamo nel pieno di una storia che non conta più di settant’anni. È quella di una danza a corpo fermo, il corpo dei tre danzatori, Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini e Valerio Sirna, avanza a piccoli passi ritmati; oppure si piega in due e lentamente scivola a terra; o lì, a terra, si sdraia a pancia in sotto e se ne sta immobile. A volte il corpo di quella donna tutta nuda si allontana da noi spettatori e si mette contro il muro; altre volte avanza, non spavalda, ma così, semplicemente, nuda com’è. I capelli di tutti e tre sono così lunghi da coprirne i volti. Il silenzio, quasi sempre, è assoluto.