LA REGIONE E GLI ATTI INCONSULTI
Tra storie varie di ordinaria sudditanza, c’è pure questa. Dopo anni di lavoro per un’amministrazione pubblica, la Regione Lazio, un cittadino chiede il calcolo delle sue competenze. C’è disaccordo su quanto versato nel tempo, tanto che alla fine è costretto ad andare in Tribunale. Per provare quanto afferma, chiede alla Regione, ente che custodisce i documenti, di esibirli. E qui viene il bello.
La Pisana eccepisce che il cittadino può procurarseli «tranquillamente» esercitando il diritto di accesso agli atti, cioè di andarseli a reperire presso i propri uffici. Nota bene: si tratta di documenti in possesso della stessa pubblica amministrazione con cui il cittadino ha il contenzioso in corso. La domanda sorge spontanea: perché piuttosto la Regione non deposita quei documenti? Servirebbero anche per dar sostanza alle sue ragioni. Altrimenti, dovesse mai trattarsi di un’eccezione dilatoria, non farebbe onore all’ente. Ma andiamo oltre.
Il lavoratore fa l’istanza e si reca all’ufficio regionale che rilascia le copie. L’accesso, tuttavia, non è gratuito, c’è da pagare: anzitutto, il costo delle fotocopie. Materiali di consumo, ed è ammissibile, anche se il prezzo praticato supera persino quello di mercato. Pazienza. Ma non è tutto.
La vera sorpresa è che ci sono altri settecento euro da pagare come «rimborso delle spese di ricerca». Già, proprio così.
Benvenuti alla Regione Lazio.
Nulla c’entra il funzionario che ha chiesto la grossa cifra, ha solo applicato il «regolamento di organizzazione della Regione». La legge nazionale prevede due tipi di accesso: quello civico, aperto a tutti, non ha bisogno di motivazione ed è gratuito. Così stabilisce una legge del 2013, passata alle cronache come Foia (Freedom of Information Act). Chiunque può fare richiesta di documenti, anche per curiosità, e gratis. Attenzione, però, se l’atto richiesto riguarda voi personalmente, si applica la legge 241 del 1990: bisogna provare un interesse «diretto, concreto e attuale per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti» e pagare i diritti. E questo sarebbe il caso di cui stiamo parlando. Lecito chiedersi se si tratti di schizofrenia legislativa: sarebbe più giusto che le due istanze fossero trattate allo stesso modo. O la trasparenza funziona a corrente alternata? Bizantinismi legali a parte, è corretto che un ente pubblico, chiamato a esibire atti in suo possesso, gravi sul cittadino l’onere di farvi accesso e i relativi costi, limitando di fatto l’esercizio dei suoi diritti? La domanda è retorica: non di denaro si tratta, ma di un principio di civiltà. Le stesse norme sulla semplificazione stabiliscono una regola per cui i documenti attestanti atti sono acquisiti d’ufficio, ove in possesso della pubblica amministrazione, potendosi al più richiedere ai privati i soli elementi utili per la ricerca. Ma, poi, nell’epoca del digitale, come si può anche solo immaginare un «rimborso per le spese di ricerca»? Quali spese? Non basta un click? Vogliamo pensare che i documenti della Regione Lazio siano organizzati e archiviati per cartelle informatiche e non alla rinfusa nei corridoi. Come crediamo non manchino archivisti e operatori già pagati per far questo, né che siano tanto impegnati da far versare al cittadino (che pure paga fior di tasse) centinaia di euro extra. Volete vedere che al cittadino sarà rimproverato pure di non aver chiesto scusa per il disturbo?
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