Gogo Penguin, il jazz che arriva da Manchester
Al Monk il concerto della band britannica
Sul sito Si legge: «La nostra è una musica per il cuore, per la testa e per i piedi»
Jazz moderno, contaminato dai ritmi tipici della musica elettronica. Le linee melodiche del pianista Chris Illingworth, d’influenza classica, filtrate dall’energia dance del bassista Nick Blacka e dal batterista Rob Turner. Stasera al Monk di scena i Gogo Penguin, il trio di Manchester nato nell’ambiente universitario della cittadina, oggi amato sempre più da un pubblico internazionale. I britannici presentano A Humdrum Star, uscito qualche giorno fa: musica minimalista con echi post rock e elettronici. Lo spirito tipico della band con vibrazioni sentimentali. Vedere
Bardo, accompagnato da un suggestivo video, per credere.
La formazione è al quarto disco. Il consolidamento dello stile del gruppo dal nome singolare, quanto i titoli dei suoi album. Hanno raccontato i Gogo Penguin: «Agli albori non avevamo ancora un nome, perché fino a quel momento avevamo suonato insieme solo per divertirci. A un certo punto, però, ci hanno ingaggiato in un night a Manchester, perciò dovevamo trovarne uno. Nella nostra sala prove avevano abbandonato una specie di pupazzo di cartapesta che era servito come scenografia per un’opera: assomigliava tantissimo a un pinguino, così abbiamo deciso di ribattezzarci Penguin».
Nel loro curriculum, agli esordi, la colonna sonora di
Koyaanisqatsi, documentario del 1982 diretto da Godfrey Reggio sull’evoluzione della civiltà. La filosofia del gruppo è semplice: ogni membro del trio s’ispira agli altri e ne adotta le idee. Se la strumentazione è quella archetipica del trio di pianoforte, con basso e batteria, i ritmi sono di netta ispirazione elettronica. Gruppi di riferimento Massive Attack, Brian Eno, Shostakovich e Debussy.
Liberi di spaziare in diversi territori. Lontani dalle etichette: «Preferiamo che ciascuno senta in noi quello che meglio crede. La gente ci associa al jazz perché riflette le proprie preferenze, anche se ci sono elementi oggettivi che ci incasellano in quel segmento: la centralità del pianoforte, il tipo di batterie che usiamo, l’improvvisazione. Ma non c’è un’interpretazione univoca del nostro suono». «Musica per il cuore — così si presentano sul loro sito —. Per la testa e per i piedi».