DZEKO, IL FATTORE UMANO
Delocalizzazione. Automazione. Precarizzazione. Sembra una bestemmia avvicinare i calciatori ai comuni mortali nel mondo del lavoro. Non ci si può lamentare se il bonifico arriverà a Roma o a Londra.
Però il caso della Roma, che martedì sera si è qualificata per i quarti di finale di Champions League, resta uno spaccato interessante di quello che possiamo chiamare il «fattore umano». Come tutti i tifosi sanno bene l’eroe della partita è stato Edin Dzeko, che a gennaio doveva essere venduto al Chelsea (delocalizzazione), per essere sostituito trovando un giocatore con l’aiuto tecnologico dei «big data» (automazione), che fosse più giovane e costasse meno (precarizzazione).
Dzeko si è ancorato a Roma perché non era convinto del trasferimento («Sono rimasto proprio per vivere notti come questa»), perché non lo era la sua bellissima moglie che gli ha dato due baby «romani» e perché non lo era neppure Eusebio Di Francesco, che ha fatto tutto quello che era in potere di un allenatore per trattenerlo.
A volte i tecnici passano alla storia per una mossa tattica. A Spalletti, ad esempio, capitò con Totti «falso nueve», finto centravanti. Capì alla perfezione il Totti calciatore ma non capì mai il Totti uomo e lì morì il rapporto. Di Francesco ha inventato meno, tatticamente, ma ha capito subito che il «fattore umano» Dzeko era importante al di là dei gol e degli assist. Un giuslavorista prestato al calcio. E i conti, in Champions, tornano.