Pippo Delbono porta al cinema il suo Vangelo
Pasqua al cinema con il Vangelo secondo Pippo Delbono. «Questo film nasce da una casualità di incontri - racconta l’autore e regista - Mi sono trovato in un sperduto centro rifugiati ad Asti. Stavo attraversando un momento di grande smarrimento fisico, causato da una diplopia agli occhi: ero spiazzato nel corpo e nello spirito. Così, arrivo in quel centro di emarginati e non sapevo bene se volevo fare un film, certo non un documentario sui rifugiati. Non uno sguardo mio su di loro, ma uno stare in mezzo a loro».
Presentato alle Giornate degli autori alla Mostra del cinema di Venezia, il film (stasera in anteprima al Teatro Argentina) è interpretato proprio dai migranti accolti nel Centro di Villa Quaglina di Asti, ma non manca Bobò, attore-feticcio di Delbono. Il progetto nasce dall’esperienza personale di Pippo che ha trovato asilo e ha condiviso con i rifugiati una quotidianità fatta di tempo sospeso, tra dolorose memorie e un futuro molto incerto. «Ci sono stati momenti molto difficili - prosegue il racconto - in cui si sono creati dei muri tra me e loro. Ogni volta che provavo a filmare qualcosa, avvertivo un senso di non accettazione da parte loro. Ma c’era Bobò, l’uomo sordomuto e analfabeta che lavora in compagnia con me da 21 anni e che in questo film fa un cameo, un’apparizione come un angelo alato, ed è stato proprio lui che ha creato un ponte tra me e i rifugiati. Perché Bobò è davvero straordinario - aggiunge Delbono - Ricordo quando andammo in Palestina a girare il film Guerra nella seconda intifada del 2003. Camminavamo per le strade di Gerusalemme, nessuno voleva essere filmato ma Bobò con la sua maglia da calcio riusciva a creare un legame con quelle persone, che addirittura lo cercavano, quindi si avvicinavano a noi: nel nostro gruppo c’era anche Armando, un ragazzo poliomelitico, Gianluca ragazzo down, una strana razza di attori per una esperienza impegnativa in Palestina».
Nel Centro di Asti si è creata la medesima situazione? «Assolutamente sì! Bobò non sapeva niente delle loro storie, ma era attirato da come giocavano bene a calcio, nutriva per loro una forte ammirazione e per questo sono avvenuti i primi incontri di lavoro, in cui ho proposto alcune riprese per un possibile film da fare insieme. Non pensavo a un documentario - ripete Delbono - non mi piaceva l’idea voyeuristica di spiare la loro condizione, ma creare insieme dei personaggi. Ed ecco che la loro vita ha iniziato a mischiarsi con le parole del Vangelo, grande testo che volevo rappresentare per omaggiare mia madre: fu lei a spronarmi, invitandomi a fare qualcosa che parlasse dell’amore. Mi disse Pippo è importante parlare d’amore e potresti fare il Vangelo». Un testo sacro raccontato da un non credente? «Sì - ribatte - è quello che risposi a mia madre: io non credo a questo Dio delle menzogne, a questo Dio della famiglia, delle paure, dei miracoli e anche dell’amore». E allora? «Allora ho ripercorso le parole di quel Cristo che semplicemente dice “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero ignudo e mi avete vestito, ero straniero e mi avete accolto”. Questo mio Vangelo non è un film, è entrare insieme ai rifugiati nel sacro testo del Cristo. Ho proposto loro delle parole da dire, altre me ne hanno offerte loro. Mi interessava cercare la bellezza, anche se una bellezza ferita, distrutta, terribile: la bellezza di chi sta sul filo della vita come un equilibrista. Spero - conclude - che questo film possa essere visto, per sollecitare delle domande sul senso del nostro fare gli artisti e il fare dei politici».