Quei 55 giorni della «Grande bruttezza»
Tra il 16 marzo e il 9 maggio del ‘78 la città visse il suo buio: se ne parlò con Renato Curcio, ma lui non capì
La città della «Grande bellezza», che riesce a sopravvivere alla spazzatura e alle buche, ha avuto anche il suo momento di «Grande bruttezza». È stato dal 16 marzo al 9 maggio 1978, nei 55 giorni del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro.
Oggi, la stragrande maggioranza dei romani pensa molto male della città. Come è ridotta Roma è sotto gli occhi di tutti. Certo, l’eredità non è stata lieve, ma l’inefficienza di chi dovrebbe agire e invece, con una notevole faccia di bronzo, nega l’evidenza, è stupefacente. Detto questo, ti viene in mente La grande bellezza, il film di Sorrentino. Ti viene in mente, perché a costo di sembrare un esteta, o un menefreghista che comunque si fa le sue cene in terrazza, in fondo pensi che la bellezza di questa città mediorientale, per quanti sforzi si facciano per deturparla, rimane una «grande bellezza» che supera ogni oltraggio. Roma è un colabrodo, è sporca lurida, piena di mondezza non raccolta, sorvegliata da vigili sempre in libera uscita. È, indiscutibilmente, ancora bella e questo, anche se non assolve nessuno, purtroppo la salva.
C’è stato un tempo, invece, durato qualche anno e culminato nei 55 giorni che intercorsero fra il 16 di marzo e il 9 di maggio del 1978, vale a dire i giorni del rapimento dell’onorevole Aldo Moro e del suo assassinio, nel quale Roma non è stata più bella. Era brutta. Anche la sua miracolosa bellezza era sparita. Il suo colore era il grigio dell’asfalto di via Fani sul quale erano riversi i cinque uomini della scorta di Moro e quello rosso del sangue delle altre vittime delle Brigate Rosse; il grigio dei palazzi della politica, i fortilizi divisi fra le due ipotesi ugualmente scandalose e impraticabili, e cioè quella della fermezza e quella della pietà; il grigio del cielo al quale sembrava di non poter chiedere aiuto; il grigio anonimo delle case, di tutte le case di Roma, quelle delle periferie e quelle dei quartieri alti, all’interno delle quali — di tutte — poteva nascondersi la prigione di un uomo disperato che scriveva lettere vere; infine, il grigio delle anime dei romani che avevano paura, sì certo, ma che soprattutto vivevano lo sgomento proprio di quell’anonimato, di quel non sapere chi fossero gli aguzzini. Lo sgomento della nebbia che non ti fa vedere, ti induce a un timore universale, ti blocca i passi.
Tutto, con buona pace dei sopravvissuti di quel movimento rivoluzionario (non tutti, perché alcuni riuscirono a sistemarsi alla grande), era cominciato con il Sessantotto: la rivolta studentesca scoppiata a imitazione del Maggio francese. Chi ha partecipato, a Roma — ma a Milano non era diverso — alle prime assemblee, alle occupazioni delle facoltà e alla battaglia di Valle Giulia celebrata da Pasolini (i ragazzi borghesi che tiravano i sassi ai figli dei poveracci), sa perfettamente che quel momento è stato il momento in cui si è aperto il cammino inarrestabile della violenza. Lo sa, perché i dibattiti, si fa per dire politici, erano da una parte di una stupidità imbarazzante, dall’altra immediatamente rivolti a un solo obiettivo: cercare lo scontro violento. Il Partito Comunista, per un po’ pensò di metterci sopra il cappello (ricordo bene i professori di Lettere e Filosofia: alcuni ancora vivi) che venivano a indottrinarsi ai cancelli del piazzale delle Scienze; poi parlò di compagni che sbagliavano; finalmente, con le uova in faccia a Luciano Lama, ritirò il cappello. Rimaneva un buon numero di fiancheggiatori: gli intellettuali delle zone opache che non mancano mai di accostarsi alla sovversione per ribadire la propria purezza talebana o per trarne qualche notorietà. Ma intanto il cammino era stato tracciato, e in quella strada cominciarono a transitare i brigatisti. Finché la strada divenne un sentiero nascosto nel bosco, perse i connotati, svanì nel nulla. E noi romani, senza il conforto di alcuna bellezza, odiando quella città di piombo, imparammo che potevamo uscire di casa e, dal nulla, veder spuntare un rivoluzionario, o fuggire un rivoluzionario, con un cadavere per terra.
Alcuni anni più tardi, Giovanni Minoli mi chiese di prendere il suo posto e intervistare, io, Renato Curcio, il capo storico e ideologo delle Br, ormai uscito di prigione. Accettai. L’intervista si svolse in una stanzetta di un palazzo mi sembra di Testaccio, dove c’era la cooperativa editoriale Sensibili alle foglie, con la quale lavorava Curcio. Arrivò. Era senza i baffoni, cambiato dalla detenzione, e cominciammo. Ma siccome mi ero preparato, avevo letto dei suoi scritti, pensai di esordire così, più o meno (l’intervista è comunque nelle teche della Rai): «Senta Curcio — gli dissi — io prima di intervistarla ho letto alcune sue cose e devo dirle, per onestà, che sono rimasto sbalordito dalla pochezza, dalla banalità del suo pensiero, insomma dell’ideologia che ha fatto tanto male, tanti morti». Lui mi guardò come se fossi un povero deficiente. Ma l’intervista andò avanti finché, in chiusura, gli feci quest’ultima domanda che di nuovo sintetizzo. Gli dissi: «Senta Curcio, io, e come me tanti, in questi anni abbiamo avuto paura del vostro anonimato, della vostra inafferrabilità, della crudeltà celata dietro il vostro volto nascosto. Noi non avevamo fatto niente di male e avevamo paura. A lei, anche soltanto questo, non pesa nel cuore?». Lui mostrò di non capire. Non poteva capire che per colpa sua e dei suoi colleghi persino Roma era diventata brutta.
3 - continua
❞ Con le facoltà occupate si è aperto il cammino della violenza
Quando il Pci prese le distanze in quel sentiero si inserirono i brigatisti
Il clima di paura Uscendo si poteva veder fuggire un rivoluzionario davanti a un cadavere per terra