Carlo Cecchi «Enrico IV» all’Argentina
«Si recita con Pirandello e anche contro Pirandello». Carlo Cecchi, che del grande drammaturgo siciliano ha già frequentato in scena
L’uomo, la bestia e la virtù e Sei personaggi in cerca d’autore, si confronta stavolta con l’Enrico IV, da martedì al Teatro Argentina: opera forse meno rappresentata, rispetto alle altre due, ma certamente intrigante per un attore. Dramma scritto in tre atti nel 1921, è considerato, da alcuni, un capolavoro pirandelliano, una tragedia vibrante, amara, di assoluta bellezza, che infrange anche gli stereotipi di certa drammaturgia tradizionale. La trama, in breve, è quella di una fatale caduta
da cavallo: un nobile signore dei primi del Novecento, partecipa a una cavalcata in costume, vestendo i panni dell’imperatore Enrico IV di Franconia. Alla manifestazione prendono parte anche la marchesa Matilde Spina, di cui il protagonista è innamorato, e il suo rivale in amore, il barone Tito Belcredi che lo disarciona. Una rovinosa caduta, la testa che batte a terra, commozione cerebrale e colpo di scena: il finto Enrico IV, riavendosi dall’incidente, crede di essere il vero imperatore. «È la follia, nel classico gioco del teatro nel teatro - osserva Cecchi nel ruolo del titolo, anche autore dell’adattamento scenico e regista dello spettacolo - Prendo alla lettera la rivoluzione di Pirandello, ovvero quell’opposizione tra realtà e finzione, spingendola fino al parossismo, oltre l’asfittico dibattito tra la vita e la forma. Il conflitto tra vita e forma è come un gioco di specchi, in cui la realtà si riflette nella finzione e viceversa. È come andare in quelle fiere dove esistono i labirinti di specchi in cui ci si può perdere».
Cosa significa recitare contro Pirandello? «Non si recita Shakespeare, ma con Shakespeare. Per quanto riguarda invece il drammaturgo agrigentino, il mio è un rapporto conflittuale: riconosco il suo grande talento teatrale, ma trovo insopportabile il “pirandellismo”, che a mio avviso si inaugura proprio con l’Enrico IV, ne è l’apoteosi! Non a caso venne scritto, agli albori del fascismo, per Ruggero Ruggeri, grande attore dei primi decenni del Novecento di stile liberty e di scuola dannunziana. E per questo il testo in sé appare come un lungo, estenuante monologo, pieno di “pirandellerie”, create proprio per il mattatore in scena. Intendiamoci: io prendo molto sul serio l’opera, ma la affronto criticamente». In che senso? «La commozione cerebrale: la causa della follia, secondo me, non è la caduta da cavallo, ma la decisione, conscia o inconscia, da parte di un personaggio di recitare un altro personaggio, una sorta di vocazione teatrale. Poi- continua Cecchi - ho operato dei forsennati tagli al testo, troppo lungo, e alle battute del protagonista. Pirandello è sì un grande talento, ma ha cose insopportabili: la lingua è atroce... quindi ho operato modifiche anche sulla lingua in tal senso».
Dalla tragedia alla farsa? «Assolutamente sì - risponde l’attore - Nello spettacolo, oltre al testo originale, c’è tanta improvvisazione. Uno specchio frantumato di quella che è la vita della nostra epoca, al di là delle immediate contingenze italiane che non mi interessano. Parafrasando Baudelaire - conclude - un deserto di noia e imbecillità, con oasi di orrore: ovvero la realtà attuale del nostro mondo occidentale».
Il testo
Fu scritto nel 1921 per Ruggero Ruggeri, grande attore dei primi decenni del Novecento di stile liberty e di scuola dannunziana C’è anche tanta improvvisazione. Uno specchio frantumato della vita della nostra epoca, un deserto di noia e imbecillità, con oasi di orrore