Robert Morris, in mostra le ultime sculture
vuoto, aderenti alle pareti o deposte sul pavimento, con una forza d’impatto d’insieme resa ancor più netta dalla simultaneità della visione. Tutte o quasi le sculture infatti (ma in questo caso si potrebbe quasi azzardare l’antico termine di statue) sono state allestite in un unico ambiente, il Salone Centrale del museo, potenziate dal contrasto con il vuoto e il bianco tutto intorno.
Evidenti, in questi lavori, alcuni richiami ai maestri del passato da parte di un artista colto e che viaggiò a lungo, anche in Italia: richiami a Donatello (con cui Morris ebbe modo di «dialogare» realizzando alcune sue opere nel Duomo di Prato), a Goya, al Rodin dei Borghesi di Calais, al gotico Claus Sluter e alle sue statue piangenti — come rilevato dal curatore della mostra, Saretto Cincinelli — ma anche al capolavoro di Niccolò dell’Arca (il gruppo in terracotta per la chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna) o al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino per la Cappella Sansevero a Napoli.
Un vibrante e intenso Requiem contemporaneo, che Morris realizza in due serie di opere—Molting sex oske le tonsshrou de Boustrophe don s—già viste singolarmente a New York da Castelli ma qui affiancate per la prima volta con un inedito progetto espositivo concordato con l’artista prima della sua scomparsa. E singolari sono anche le tecniche utilizzate dal maestro dell’avanguardia americana: la fibra di carbonio e la tela di lino belga bagnata in una particolare resina e apposta su modelli per ottenerne la forma. Una soluzione in grado di dar vita a figure-sagome spettrali, senza corpo, evocate solo da un mantello o da un vibrante drappeggio.