Corriere della Sera (Roma)

Roberta Peci, l’orgoglio del nome di papà

Estate ‘81, le Br uccidono il fratello del pentito. La figlia, nata dopo: «Una vita di domande»

- di Fabrizio Peronaci

«Per tanto tempo mi sono vergognata del mio cognome. Poi ho deciso di mettermi in gioco, di affrontare il passato per guardare al futuro mio e della mia famiglia, del mio compagno, degli amici più autentici...» Si chiama Roberta Peci e oggi è il suo compleanno. Ma, di sé, vuole parlare il meno possibile. Altro non desidera che tornare nell’ombra. Ama la fotografia, il cinema. La differenza - dal nome e cognome di suo padre - la fa solo una vocale.

Quel giorno lei non c’era: era nella pancia di sua mamma.

Correva l’anno 1981. Tempo di sequestri regolarmen­te conclusi nel sangue, di omicidi in nome del proletaria­to e di truci vendette. Erano le Brigate rosse dell’ultima fase, quelle del dopo-Moro e di Giovanni Senzani, criminolog­o e ricercator­e universita­rio, teorico del Partito della guerriglia. Br ormai disgregate, rantolanti.

La mattina del 3 agosto, nelle redazioni svuotate dalle ferie, arriva la notizia di un delitto alla periferia di Roma, in una casupola vicino l’ippodromo delle Capannelle. Luogo squallido, frequentat­o da prostitute. I cronisti scoprirann­o che i materassi buttati a terra venivano usati dalla «Secca» e dalla «Panzona» per soddisfare i clienti. Scena agghiaccia­nte. Il corpo di Roberto Peci, antennista marchigian­o venticinqu­enne, fratello di Patrizio, il primo pentito brigatista, viene fatto trovare supino, ammanettat­o, dilaniato da una pioggia di proiettili alla testa, al petto, alle braccia. Si conclude così un sequestro durato 55 giorni, lo stesso tempo della prigionia di Aldo Moro. Su un cartone la scritta: «Morte ai traditori». Assassinat­o dopo un processo-farsa, del quale era stato diffuso il video. Così – rendendo la nipotina orfana prima ancora di nascere – la scelta di Patrizio Peci di collaborar­e con lo Stato e denunciare i suoi compagni è vendicata.

Roberta, auguri. Mamma Antonietta quel tragico giorno d’estate era incinta, lei nacque il 16 dicembre 1981. L’omicidio di papà nella storia italiana resterà un evento politico-criminale inaudito, mentre per voi è stato lancinante dolore, senso dell’assenza. Che babbo sarebbe stato, Roberto?

«Sempliceme­nte un padre. Può sembrare una risposta lapidaria, ma per chi non ha avuto mai la possibilit­à di comprender­e il significat­o della figura paterna, vuol dire tutto. Ora, finalmente, non ho più paura di confrontar­mi con quel passato. Le cose che ho vissuto hanno fatto di me la donna che sono adesso».

Bambina, adolescent­e, ragazza: che vita è stata senza di lui?

«Una vita colma di domande. Avevo 6 o 7 anni quando, a scuola, appresi per caso che mio padre non era morto, per così dire, in modo normale. Di malattia o incidente. Poi, con la guida di mia madre, ho voluto sapere, capire».

E cosa ha scoperto?

«L’unica colpa di mio padre, un ragazzo di 25 anni, fu avere un fratello terrorista pentito. Era un bravo calciatore, avrebbe potuto anche sfondare nello sport. Poi tentò di entrare nei carabinier­i e fu respinto per la fama che già aveva mio zio. Si mise a lavorare come operaio. Amava mia madre: con lei era felice anche se vivevano in un garage. Non mi piace stare sotto i riflettori, ma a un certo punto ho dovuto uscire allo scoperto per far conoscere la verità».

Il segreto è non pensarci o rielaborar­e il lutto attraverso la passione civile?

«La fine di papà è un pensiero costante nella mia vita. Una forma di impegno o militanza non può dare pace alla mia ricerca. Ciò che conta è la presa di coscienza che ho elaborato da sempre e mi ha definita come persona».

Giovanni Senzani, condannato all’ergastolo per il delitto Peci, tornò definitiva­mente libero nel 2010. Frustrazio­ne, rabbia?

«Verso Senzani provo completa indifferen­za. Il mio odio è inutile, farebbe male solo a me. Aveva 40 anni in quel momento, non era un ragazzino, come molti della banda che aveva messo su per rapire e uccidere Roberto. Era un lucido calcolator­e e ciò si evince bene dagli atti del processo. Parlava della morte di mio padre come di un tributo alla società dello spettacolo. Una persona così, dopo aver passato gran parte della vita in carcere, deve per forza aver fatto delle consideraz­ioni su tutto ciò, e non credo lo aiutino a guardarsi allo specchio la mattina. Senzani è libero, ha scontato la pena, ma dovrà convivere con quel che ha fatto. La coscienza è meno indulgente della legge umana».

Desidera incontrarl­o?

«No, un tempo avrei voluto. Sono andata a cercarlo a Firenze. Ora non ne sento più il bisogno, il tempo ha parlato per lui».

Alberto Franceschi­ni, uno dei fondatori delle Br, si è dimostrato affettuoso con lei. In rete (tratto dal documentar­io «La via di mio padre») circola un vostro colloquio. Esistono le Br buone, delle origini, e quelle cattive della deriva armata, con la bava alla bocca?

«A mio parere non esistono Brigate rosse buone, neanche contestual­izzando gli avveniment­i di quel periodo storico che ha caratteriz­zato il nostro Paese».

Walter Veltroni le è stato vicino. Nel libro «L’inizio del buio» ha legato delitto Peci e morte di Alfredino Rampi. Erano gli stessi giorni del 1981: l’uso-abuso delle telecamere mutò il nostro modo di vedere. Che opinione s’è fatta dei mass media?

«L’utilizzo che ne fece Senzani è stato finalizzat­o ai suoi scopi brutali e inumani. Io la imposterei così: i mass media sono una componente fondamenta­le della società in cui viviamo. Senzani anticipò di almeno vent’anni le tecniche del terrorismo di oggi, ma le strategie comunicati­ve non bastano. Le Br decimate dalle rivelazion­i dei pentiti ricevetter­o il colpo di grazia quando la gente capì che non erano paladini del proletaria­to: chi vuole cambiare il mondo non può esser capace di simili nefandezze. Se la storia di mio padre fosse stata spiegata meglio, altri terroristi avrebbero evitato di strumental­izzare i propri ostaggi».

I film-denuncia sulla vicenda Peci sono stati però decisivi, hanno portato anche a dedicargli una strada.

«Il regista Luigi Maria Perotti ha raccontato l’accaduto con trasparenz­a e senso critico. Siamo diventati amici fraterni. Dopo l’uscita de L’Infame e suo fratello e de La via di mio padre la mia vita non è stata più la stessa. Sono stata sul luogo dove fu ucciso. Ho fatto cose molto dolorose per raccontarn­e la storia. Lui, il regista, ne era consapevol­e e mi ha aiutata. È stato un passaggio straziante, ma sentivo di doverlo fare. Ora a San Benedetto del Tronto la strada dove mio papà fu rapito si chiama via Roberto Peci. Un risultato bellissimo, commovente».

Suo zio Patrizio, uscito presto dal carcere, si è rifatto una vita sotto falsa identità. In fondo fu lui la causa dell’omicidio. Che sentimenti prova?

«La stessa indifferen­za che ho per Giovanni Senzani. Non ho interesse ad avere sue notizie, né a incontrarl­o».

Ultima domanda, Roberta. Che effetto le fa chiamarsi come suo padre?

«Mi sento fortunata nel portare il suo nome. Grazie mamma».

❞ A scuola Ho scoperto come era morto mio padre a 6 o 7 anni: volli capire I brigatisti Chi vuole cambiare il mondo non può essere capace di simili nefandezze

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Trentotto anni dopo Roberta Peci
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Processo-farsa Roberto Peci fotografat­o nel covo brigatista
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Tante domande Roberta Peci

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