«C’era una volta Sergio Leone»: il regista in mostra
Filmografia Un percorso diviso in sezioni: gli esordi, i capolavori, fino all’ultimo progetto incompiuto Nel museo dell’Ara Pacis una mostra dedicata alla vita e all’opera del regista
«Sergio Leone non ha mai fatto un film su Roma, eppure è il più romano dei cineasti, così profondamente impregnato della grandiosità di questa città». E non poteva esserci luogo più adatto dell’Ara Pacis per ospitare la mostra che lo celebra, C’era una volta Sergio Leone, a 90 anni dalla nascita e a 30 dalla scomparsa, sottolinea Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna che l’ha co-prodotta insiema alla Cinémathèque Française.
A Parigi, da cui arriva l’allestimento curato da Farinelli con Rosaria Gioia e Antonoi Bigini, è stato un successo. «Questa mostra è frutto di un lungo viaggio partito proprio da Roma dieci anni fa, quando alla Festa del cinema ne allestimmo una prima versione. Arrivò Ennio Morricone, commosso, che mi ringraziò». Il grande musicista, amico d’infanzia del regista trasteverino — erano compagni di scuola — è il co-protagonista della mostra, ricca di materiali d’archivio e oggetti personali forniti dalla famiglia Leone e dalla Unidis Jolly film. Foto, bozzetti, sceneggiature, carteggi, modellini, costumi, sequenze memorabili. E cimeli leggendari come il pianoforte di casa Petrof dove Morricone faceva ascoltare all’amico d’infanzia e a sua moglie Carla le partiture.
Un destino di famiglia il suo. Il padre, regista dell’epoca d’oro del muto con lo pseudonimo di Roberto Roberti, che volle la madre Bice Waleran, in arte Edvige Valcarenghi, come protagonista di un western girato nel 1913, La vampira indiana. «Sono nato nel cinema. I miei genitori ci lavoravano. La mia vita, le mie letture, tutto quello che mi riguarda ha un rapporto con il cinema», si legge nel catalogo La rivoluzione di Sergio Leone
curato da Farinelli e Christopher Frayling.
«Si racconta mio padre, l’uomo, il regista. È come un tuffo nel passato — commenta la figlia Raffaella —. Ho apprezzato che si indichi da dove è partita la sua opera e dove è arrivata, facendo capire cosa ha lasciato nel tempo. Mi ha emozionato anche il racconto della sua ironia».
C’è il Leone privato. Ma, soprattutto, il merito di questo omaggio al regista che reinventò il western — articolato in sezioni: Cittadino del cinema, Le fonti dell’immaginario, Laboratorio Leone, C’era una volta in America, Leningrado e oltre, dedicata all’ultimo progetto incompiuto, L’eredità Leone — è di ristabilire la centralità dell’autore nell’ecosistema del cinema internazionale. «Abbiamo smontato il suo lavoro per dimostrare quanto fosse d’autore, cosa che la critica ha faticato a riconoscere. Rispetto all’allestimento parigino — racconta Farinelli — ci sono 300 metri quadrati in più, reperti preziosi come il pianoforte, lo spolverino di Clint Eastwood, una sala dedicata all’influenza di Leone, su quanto abbia contribuito con la sua opera a cambiare il cinema. Con il suo gusto per arte, letteratura, architettura, ha portato la cultura alta in un cinema che ha saputo essere assolutamente popolare».
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