Crollo di Vigna Jacobini, la sopravvissuta: «Vogliono toglierci casa. Sindaca, aiutaci»
Il crollo del palazzo al Portuense provocò 27 morti. L’ultima sopravvissuta: «Mai risarciti e ora vogliono toglierci la casa. Chiedo alla Raggi sensibilità»
«Dio ha voluto così, non sono stata io a scegliere…» Luciana Pompei, l’ultima sopravvissuta del crollo del Portuense, allarga le braccia e sorride. Di quella notte apocalittica ricorda il prima, quando il quadro in salotto non ne voleva sapere di star fermo, il durante, quando il pavimento si aprì, il materasso sprofondò e lei si ritrovò tre piani sotto, catapultata in un abisso di dolore e spavento, e alcuni fotogrammi del dopo, il salvataggio celebrato da giornali e tg, l’attimo in cui rivide la luce e perse i sensi, per riprenderli più tardi in ospedale. Ma non dimentica neanche - la sopravvissuta - le pene più recenti. «Ritrovarmi viva, assieme a mio marito, ha avuto un prezzo: essere guardata quasi con fastidio, come se dovessi scusarmi...»
Nessun colpevole Il 16 dicembre 1998 vennero giù 5 piani in piena notte. Due mesi fa assolto il gestore della tipografia
Memorie dal sottosuolo. Quelle di Luciana Pompei vedova Viola, 74 anni, ex cuoca negli asili nido, sono sensazioni ancora nitide, nonostante i 21 anni trascorsi dal crollo del palazzo di via di Vigna Jacobini. Erano le 3.06 del 16 dicembre 1998. In un inferno di balconi sbriciolati e muri collassati, persero la vita 27 persone, tra cui 6 bambini. Tutti i condomini del civico 65, meno due. I miracolati del terzo piano, appunto: lei, Luciana, e suo marito Alberto, elettricista di teatro, salvati tra gli applausi il pomeriggio seguente, lui fotografato nella barella, carponi, con il pigiama bordeaux impolverato, ma in buone condizioni, tanto che presto tornò a lavorare fino a che a portarselo via, 5 anni fa, è stata una polmonite.
Signora, lei ha fatto il viaggio di andata e ritorno: 13 ore da sepolta viva. Racconti.
«Ero rincasata nel pomeriggio e, appena entrata, mi cadde l’occhio su un quadretto a olio in sala da pranzo. Albe’, gli dissi, ma non vedi che è storto? Cercammo di fermarlo alla parete con la colla, ma continuava a mettersi di sbieco… Era un segnale. Il palazzo stava già ballando».
Cena, un po’ di tv e a letto. Alle 3.06 lei dormiva?
«Certo. E di botto, come in un incubo, mi sono trovata sulle montagne russe. Tanti urlavano che era il terremoto. Con tutto il materasso, finii al piano terra. Buio, freddo, lamenti. Il pupo dei vicini piangeva tanto, ma non durò a lungo, povero piccolo...».
Percezione del tempo che passava?
«Alternavo fasi di svenimento a momenti coscienti, in cui sentivo la voce di mio marito che mi rimproverava. Diceva: Lucia’, ti vuoi tira’ su che mi soffochi? A schiacciarlo non ero io, ma una lastra di cemento».
Più sofferenza fisica o paura?
«Un dolore terribile, da pregare Iddio di portarmi via. Avevo lesioni ovunque: schiacciamento del torace, scoppio della vescica, fratture al bacino e alla clavicola, un polpaccio tagliato, un piede penzoloni, i polmoni intasati di polvere, tanto che ancora oggi mi serve la bombola dell’ossigeno. Passai sei mesi in ospedale, due anni in carrozzella. Ma eccomi qui…»
Si guarda attorno. Indica la foto di Alberto in cornice. «Visto quant’era bello?» Va a preparare il caffè. Siamo nel piccolo appartamento di piazza Testaccio che l’allora sindaco Rutelli assegnò a lei e suo marito, con l’impegno di non chiedere l’affitto per 4 anni, a titolo di risarcimento. Contano anche le promesse, in questa storia molto italiana.
Cosa trovò nel suo ritorno alla vita?
«Gli affetti più cari, la cosa più importante. I figli si salvarono perché erano fuori. Ma per il resto nulla di nulla, sa che significa? I tuoi oggetti, i mobili, i vestiti, le posate, i piatti, i quadri che mi divertivo a dipingere, gli ori, i ricordi di famiglia: tutto svanito, dissolto. Dopo il ricovero, ci trovammo in una casa vuota. L’unico oggetto recuperato fu la mia borsa con dentro la carta d’identità e mezzo stipendio, 450 mila lire in contanti. L’avevo portato a casa quella sera e l’altra metà l’avevo data ad Alberto per metterla al sicuro. Non è rientrata».
L’ambientamento a Testaccio?
«Difficile. Stavo male, entravo e uscivo dall’ospedale, mio marito mi doveva sollevare dalla carrozzina, l’ascensore non funzionava, la notte piangevo per i dolori. E presto arrivò la prima batosta: senza neanche aspettare i quattro anni, oltre all’affitto ci chiesero gli arretrati. Quello che Rutelli
aveva promesso, altri se l’erano dimenticato. Volevano 15 mila euro, sia da noi sia dalle altre sei famiglie rimaste senza un tetto. E chi li aveva? Sto ancora pagando, le rate scadono nel 2022».
Intanto il processo girava a vuoto, tra annullamenti e rinvii. Giusto un paio di mesi fa, con l’assoluzione dell’unico imputato, il sospetto che fosse stata l’attività della tipografia al piano terra a causare il crollo è definitivamente caduto.
«Sì, è finita come prevedibile: 27 morti, nessun colpevole e i bisognosi abbandonati. Né io né gli altri nuclei abbiamo ricevuto un risarcimento dallo Stato. E ora rischiamo la beffa. Il Comune, siccome non ha soldi, vuole vendere i suoi immobili in zone di pregio. A quanto pare Testaccio lo è, e quindi adesso vorrebbero toglierci le case che ci hanno dato. Bello no? E dove ci sbattono? Abbiamo incaricato gli avvocati, ora pare che qualcuno si stia mettendo la mano sulla coscienza. Chiedo alla sindaca Raggi sensibilità, non altro».
In ogni caso lei è qui, Luciana.
«Ci penso sempre. La nostra stanza era verso l’esterno, sopra il garage, e forse per questo non siamo stati completamente schiacciati, ma Marco e Andrea, i miei ragazzi, dormivano in salotto, sull’altro lato. Quella notte uno era dalla fidanzata e l’altro in Inghilterra. Altrimenti sarebbero morti di sicuro. Siamo stati fortunati, è vero, ma…»
La solitudine dei miracolati...
«Esatto, un dolore anche questo. Per tanti anni ho percepito una distanza, un tenerci in disparte, come se io e mio marito dovessimo pagare la colpa di averla scampata. Siamo stati esclusi dal gruppo, dalle cene, trattati con freddezza. Ma non è giusto. Che colpa abbiamo avuto a uscirne vivi? Io sono credente, ascolti: se Dio ha deciso così, rientrava in un disegno».