Bonvissuto, ritratto di famiglia e di uno scudetto
Sandro Bonvissuto racconta il suo libro ambientato al Quadraro Storia di un’educazione sentimentale, di una città e di uno scudetto
«Io sono nato davvero quando ho cominciato ad amare». Per il ragazzino senza nome protagonista del romanzo di Sandro Bonvissuto, La gioia fa parecchio rumore (pubblicato da Einaudi come il fortunato esordio, Dentro), la scintilla scatta tra le mura domestiche. Si innamora della «prima cosa trovata a casa», la squadra di calcio. «Come tutti matrimoni combinati, anche quello con la mia squadra del cuore fu determinato a monte da precise motivazioni dinastiche». Ma «cominciare ad amare è rompere qualcosa che prima funzionava, è disobbedire all’ordine precedente». La disobbedienza farà di lui una persona diversa, capace anche di sovvertire equilibri familiari, grazie a un giocatore arrivato dal Brasile — Paulo Roberto Falcão, mai citato ma presentato già in copertina nell’illustrazione di Andrea Serio — che osava andare in tv a nominare la parola tabù, scudetto. Quello della stagione 1982-83, a smentire l’assioma «mai ’na gioia». Arrivò, e fece parecchio rumore.
Un romanzo che è tante cose insieme, questo di Bonvissuto. Cronaca di un’educazione sentimentale, innanzitutto. Ritratto di famiglia in un quartiere, il Quadraro («la borgata più ribelle di Roma che il comandante della Gestapo di stanza nella capitale durante l’occupazione nazista definì “un nido di vespe”»). Ingresso nell’età adulta in un’epoca, fine anni Settanta e inizio Ottanta, che sembra remota. Indagine antropologica su romanisti, romantici e megalomani e romani, «sarcastici fino alla morte, inclini alla battuta e all’iperbole, ironici in modo amaro, capaci dei rilievi più fantasiosi». E, ancora, letteratura del pallone, con parentele più o meno dichiarate con Soriano, Pasolini, Saba anche con il De Gregori de
La leva calcistica, più che come ha notato qualcuno, Nick Hornby. Analisi di un’epoca della militanza calcistica prima che alcuni eventi — come la tragica morte all’Olimpico del tifoso laziale Paparelli — ne cambiassero la natura. E, non ultimo, atto d’amore per Roma e la sua «bellezza esagerata». Città, per cui vale la «formula perfetta» applicata alla squadra: «’A Roma bisogna amalla popo quanno perde, a ’malla quanno vince so’ bboni tutti».
«Era un’altra Roma, un’altra Italia, un’altra era, quella della mia generazione — racconta
Bonvissuto, 49 anni, al Corriere — . Protagonista un ragazzino come tanti, a cui ho dato un’identità fittizia, pescando dalla mia esperienza, comune a tanti altri». Quella famiglia risulta familiare, infatti. Cuore e disincanto, come uscita da un film di Scola o Monicelli. «Le famiglie allora erano tutte uguali, stesse macchine, la 127, la 132, stessi tipi umani. Con madri matriarche: se sgarravi, ti rimettevano a posto. Niente lussi ma un certo benessere. Non mi sentivo né privilegiato né sfigato, le case degli amici erano come la mia. La povertà non la toccavi più ma la generazione prima l’aveva provata. Il pane non si buttava e a chiunque arrivasse si diceva: “Mettete a sede’, magna con noi».
Gli unici due personaggi a cui l’autore ha dato un nome sono centrali nella formazione del ragazzino. Zio, portatore non sano del magone esistenziale collettivo («Come diceva Zio, le parole Roma e tranquillità non potevano proprio stare nella stessa frase»), e il misterioso Barabba, un po’ eremita un po’ istitutore che vive in una roulotte lungo la ferrovia che gli apre insospettabili porte sul mondo.
«Quella è l’ultima stagione del calcio romantico — continua Bonvissuto — , prima della rivoluzione berlusconiana che cambia tutto, pallone e società». Continua a andarci, a volte, allo stadio. «Ma da romanista contemplativo, non più mistico come il ragazzino del romanzo. Vivo lo scoramento di chi ha conosciuto un’altra stagione ma sono consapevole che per i ventenni come mio figlio l’epopea ha il volto di Totti. Una mitologia ancora più forte».