Cechov, una dolce e malinconica visione
Come una sinfonia d’autunno. Il regista Alessandro Serra porta in scena la sua personale interpretazione del Giardino dei ciliegi di Cechov con la dolce e malinconica visione di un mondo in via di estinzione, o meglio, definitivamente estinto. In un impianto scenografico scarno, firmato dallo stesso Serra (al Teatro Argentina fino all’8 marzo), dove il grigiore delle alte pareti esalta il grigiore interiore dei protagonisti, si evolve e sconvolge la mesta vicenda di una proprietà, un tempo appartenuta a un’aristocratica famiglia, che deve necessariamente essere messa all’asta per pagare i debiti accumulati. Il famoso giardino fa parte della proprietà, anzi, è la parte forse più amata e intensamente vissuta un tempo, ma ormai abbandonata. L’azione scenica si apre e si svolge nell’altrettanto amata stanza dei bambini, dove i ricordi si rincorrono, si intrecciano tra i personaggi che rivivono il candore di un’epoca spensierata che è impossibile ritrovare, perché tutto è finito. I padroni, gli ex ricchi ora affogati dai debiti, debbono fare i conti con i nuovi ricchi ex poveri, che non aspettano altro di poter mettere le mani sul loro patrimonio. Ma in fondo Ljubov’ Andreevna Ranevskaja (Valentina Sperlì), elegante e snob, di ritorno con il suo seguito da una lunga permanenza a Parigi, dove ha dissipato non solo i suoi averi ma anche la sua svagata esistenza, non appare preoccupata dalle conseguenze. E non concede molta attenzione alle proposte e possibili soluzioni affaristiche del mercante Lopachin (Leonardo Capuano), figlio di un servo ma adesso uomo duro e concreto, che diventerà il futuro proprietario. L’unica cosa che addolora Ljuba è la distruzione del suo giardino. Incombe una mesta nostalgia sulla messinscena visionaria e poetica di Serra, una danza di morte animata solo da stanchi fantasmi.