Corriere della Sera (Roma)

Ore da incubo per l’agente col virus

La moglie: l’ha detto ai dottori, e ai centralini attese infinite

- V. Costantini

La moglie del poliziotto risultato positivo al coronaviru­s, infettata come due figli e la cognata, ricostruis­ce ora per ora l’incubo del marito. Tra le visite all’ospedale di Tor Vergata ai giorni trascorsi a casa prima della diagnosi definitiva che lo ha costretto al ricovero allo Spallanzan­i.

Alle 21.15 di sabato scorso, 29 febbraio, un’ambulanza trasporta il poliziotto di Spinaceto al Gemelli. È al Policlinic­o romano che il paziente viene sottoposto al tampone e risulta positivo al coronaviru­s. Sono già quattro giorni però che il sovrintend­ente del commissari­ato tenta di segnalare la sua condizione, con ricovero e dimissioni incluse al pronto soccorso di Tor Vergata. Ma perché rischiare l’incolumità propria e di altri se si temeva un contagio? Perché, nonostante le misure diramate dalle autorità sanitarie e dalla stessa Questura ai suoi dipendenti, il protocollo è saltato? Andiamo con ordine. È la moglie dell’agente a ricostruir­e la storia clinica dell’uomo, ora ricoverato allo Spallanzan­i: ha la polmonite ed è in ventilazio­ne assistita. Anche lei, i figli e la sorella del 50enne, residenti a Torvaianic­a, sono risultati positivi al Covid-19 e ora sono in “quarantena” casalinga. L’indagine epidemiolo­gica di medici e Regione Lazio ha rintraccia­to il link che ha portato il nucleo familiare a contrarre il virus, ovvero il concerto dello scorso 14 febbraio al Forum di Assago, a cui ha partecipat­o la figlia maggiore della coppia. «Non era zona rossa ma comunque avevamo avvertito tutti i medici» sostiene la donna, che ricorda anche come il marito sia ammalato oltre un mese fa. A Tor Vergata sono in corso verifiche per valutare se il link sia stato effettivam­ente dichiarato.

Primi malesseri

Il 2 febbraio il poliziotto accusa la prima febbre. Un malore che si ripresenta a più riprese, si assenta dal lavoro, poi ritorna, «stava male anche prima che nostra figlia partisse – sottolinea la moglie - non so dire se sia collegato». La febbre si alza fino a 39 gradi e martedì 25 febbraio inizia la lunga odissea per la famiglia. Il medico di base ravvisa sintomi compatibil­i con il coronaviru­s e, come da protocollo, li consiglia di chiamare i numeri di emergenza. «Il 1500 era sempre occupato o non rispondeva nessuno, abbiamo provato per ore», sostiene la signora, riferendos­i al numero preposto del Ministero della Salute. «Chiamiamo il 112 ma anche in questo caso continuano a rimpallarc­i da un centralino a un altro, oppure restiamo in attese eterne», racconta la donna. A tarda sera, dice, arriva una risposta sorprenden­te: «Andate al pronto soccorso, ma con comodo».

L’attesa in barella

Mercoledì 26 febbraio il sovrintend­ente approfitta del leggero calo di febbre (fino ad allora tra 38 e 39 gradi) e va a Tor Vergata. Protetto da una mascherina lo ricoverano, lo sottopongo­no alle analisi del sangue e a una lastra ai polmoni: l’attesa è lunga, per la moglie sono 26 le ore in cui il marito resta confinato su un lettino. E senza essere isolato. «Intanto chiede di essere sottoposto a un tampone per il virus, perché abbiamo detto fin dall’inizio dei contatti che ha per il suo lavoro e del viaggio di nostra figlia, pur dubbiosi del contagio visto che non si è parlato di focolai a quel concerto» ribadisce la donna. Resta il fatto che, pur nella loro comprensib­ile disperazio­ne, un pronto soccorso sarebbe l’ultimo dei luoghi a cui rivolgersi in caso di sospetti contagi per tutelare sia i sanitari sia gli altri pazienti, come ripetuto anche nei vademecum diffusi ovunque. La signora però conferma che l’esposizion­e a luoghi delle zone rosse è stata segnalata a più riprese. Il giorno dopo, comunque, il poliziotto viene dimesso: sulle cartelle che ora sono conservate allo Spallanzan­i si parla di «polmonite batterica bilaterale, condizione rischiosa, tanto che il nostro medico è rimasto sorpreso delle dimissioni», sottolinea la moglie.

Il secondo ricovero e il tampone

Trascorron­o più di due giorni e l’uomo resta a casa, isolato per quanto possibile, è sotto antibiotic­i che però non funzionano. La febbre è alta. «Siamo ormai stremati, chiamo il medico della Asl e gli chiedo aiuto. Mi dice di chiamare un’ambulanza che poi porta mio marito al Gemelli dove, finalmente, gli fanno il test» racconta il finale di una storia ormai nota la donna: sono le 21.15, si ricorda persino l’orario esatto in cui ha visto il marito portato via in barella. L’ultima volta, per ora, che lo ha potuto abbracciar­e. Poche ore e avviene il trasferime­nto protetto all’Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzan­i. Le sue condizioni, al momento, sono stabili, ma critiche.

«Questa cosa comunque lascerà dei segni sulla sua salute, purtroppo – teme la moglie, molto provata –. Alcuni lo accusano di aver messo a rischio la salute altrui ma noi abbiamo fatto di tutto per segnalare la sua condizione. Qualcuno ha persino messo sui social il nostro indirizzo di casa, come se fossimo degli untori. Ora vogliamo solo riaverlo con noi».

Al telefono

«Il 1500 era occupato, al 112 ci hanno detto di andare in ospedale...»

Il viaggio della figlia

«Non era nelle zone rosse ma abbiamo avvertito chi di dovere»

 ??  ?? Il cartello stradale all’ingresso del Comune di Pomezia
Il cartello stradale all’ingresso del Comune di Pomezia

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy