La vita e i versi Quei legami fra Dante e l’Urbe
Nella Giornata a lui dedicata, storia dei legami tra l’Alighieri e l’Urbe: glorie, «tristiloquium», una piazza (che c’è) e un viale (mancato)
Non si sa con precisione quante volte Dante Alighieri sia stato a Roma: di certo nel settembre 1301, quando fece parte della delegazione inviata da Firenze al Papa per indurlo a considerare in modo benevolo la città. Forse anche nei primi mesi del 1300 quando si apriva il primo giubileo della storia, promulgato da Bonifacio VIII per attirare folle di pellegrini, offrendo l’indulgenza plenaria a chi avesse visitato entro l’anno le Basiliche di San Pietro e di San Paolo.
Ma la città, il luogo per eccellenza della gloria perduta, la città dei due soli, il papa e l’imperatore, sarà presente in tutta la sua opera, anche prima della Commedia e a maggior ragione nel poema. Quanto a Bonifacio VIII ha rappresentato tutto quello che Dante combatteva, inducendolo a disprezzare Celestino V, che col suo gran rifiuto, aveva spianato la strada all’elezione di Benedetto Caetani. Tanto da spingerlo a figurarlo tra i simoniaci nel XIX canto dell’Inferno, prima del previsto («Se’ tu già costì ritto, Bonifacio? Di parecchi anni mi mentì lo scritto.»). Infatti quando Dante immagina il suo viaggio nell’aldilà, Bonifacio VIII è ancora vivo.
Certo le visite alla città cambiano lo sguardo con cui la descrive. È il primo, nel XVII canto all’inferno a raccontare la folla di pellegrini sul Ponte Sant’Angelo, tanti da obbligare a istituire un doppio senso di marcia «che da l’un lato tutti hanno la fronte / verso ’l castello e vanno a Santo Pietro; / da l’altra vanno verso il monte…».
Dante alza lo sguardo dallo sdegno cui si abbandona nella Monarchia verso i romani che parlano un «tristiloquium»: il più brutto di tutti i volgari italiani, al rispetto e all’ammirazione per la la Città Eterna. Giulio Ferroni, che ha compiuto un viaggio nell’Italia di Dante pubblicato da La Nave di Teseo, racconta il paese che semplicemente non esisterebbe senza il poeta. È lui che ne identifica l’unità culturale e linguistica («Le genti del bel paese là dove ‘l sì suona», Inferno XXXIII, vv. 79-80) molto prima che qualcuno immagini quella politica: «Dante Alighieri — scrive Ferroni — aveva in mente un’Italia che nasceva dal modello classico e letterario. Il suo riferimento era l’Impero Romano. Il suo orizzonte era universale». Ma la Roma antica e imperiale «era per Dante la città per eccellenza, il centro di misura e controllo di un mondo pacificato e per lui condizione determinante dell’incarnazione di Cristo e dell’avvento del Cristianesimo, modello civile per ogni terreno governo, eletta a sede del papato ma punto di riferimento per l’atteso risorgere dell’impero».
Per questo non può stupire oggi che la metà dei comuni italiani abbia una via o una piazza intitolata a Dante Alighieri. Roma non fa eccezione, avendo dedicato al poeta la piazza dell’Esquilino nata negli anni Venti, circondata dalle vie intitolate ad Alfieri, Petrarca, Foscolo. Non che sia stata una decisione facile. Era previsto che vi fosse un monumento dedicato al poeta al centro dei giardini, ma non è mai stato realizzato. Nel 1939 il giardino venne sconvolto per costruire un grande ricovero antiaereo. Per qualche tempo negli anni Quaranta la piazza ha perfino cambiato nome. La costruzione del nuovo quartiere dell’E42 all’Eur prevedeva un grande viale dedicato a Dante, quindi la piazza fu assegnata a Leonardo da Vinci. Ma il progetto venne sconvolto dalla Seconda guerra mondiale e Dante nel 1945 tornò a riprendersi la piazza dell’Esquilino. Quei sotterranei di piazza Dante esistono ancora, collegati al grande palazzo delle Casse di Risparmio Postali, del numero civico 25, costruito nel 1914 su progetto di Luigi Rolland. Completamente ristrutturato, ospita dal maggio 2019 la sede dei servizi segreti italiani. Insomma meglio non fare troppe domande.