Riccardo Viola: «40 anni fa il primo trionfo, così Dino seppe fare grande la Roma»
La Coppa Italia con il Torino all’Olimpico: «Liedholm l’intuizione iniziale, Falcao trasformò squadra e città»
«Quando Viola acquistò la Roma, riunì tutta la famiglia e disse: “Non dobbiamo essere troppo coinvolti. Sto pensando di mettere qualcuno a fare il presidente al mio posto”. Non ci credette nessuno”» Riccardo, figlio dell’ingegner Dino, parla del papà chiamandolo (quasi sempre) per cognome, come se fosse un personaggio fuori dal tempo. Oggi, quaranta anni fa, la Roma conquistò il primo trofeo dell’era Viola: la Coppa Italia, in finale, ai calci di rigore, contro il Torino all’Olimpico, ad un anno esatto dall’acquisto della società da Gaetano Anzalone.
Pensavate di vincere subito?
«No, fu un anno complicato. Al primo derby morì Vincenzo Paparelli, il tifoso della Lazio: fu un’esperienza traumatica. A marzo del 1980 scoppiò il calcioscommesse, con i finanzieri negli stadi per portare via i calciatori».
Suo padre ebbe qualche ripensamento?
«Mai. Per Dino Viola la Roma rappresentò il punto di arrivo della sua vita sportivoimprenditoriale, e il suo arrivo invece il punto di partenza per la Roma. Il primo anno fu di rodaggio».
Vinceste comunque la Coppa Italia.
«Ai rigori, che poi ci hanno accompagnato per tutta la presidenza. Il protagonista fu Franco Tancredi, per il Torino sbagliò Graziani…come col Liverpool».
Quale fu la prima intuizione di suo padre?
«Nel primo anno non si poteva investire e c’era bisogno di una garanzia, per questo fu preso Liedholm, il migliore. Si accorse che in rosa c’erano due liberi e non uno stopper, e inventò la zona».
Nella finale col Torino c’era in campo parte della squadra che poi vinse lo scudetto.
«Ci fu la consapevolezza di poter costruire qualcosa di buono. Ancelotti, Di Bartolomei, Pruzzo, Tancredi, avevamo riportato a casa Bruno Conti. L’anno dopo arrivammo secondi».
Ma prima arrivò Falcao.
«In campo è stato grandissimo e fuori ha cambiato la mentalità di una città. Disse subito: non accontentiamoci, possiamo vincere. Era la stessa filosofia di Viola, che ha avuto il merito di sdoganare la “Rometta”, facendola diventare grande. Nei primi 5 anni di presidenza, la dignità di Roma è stata portata ad un altro livello».
Ha citato la finale di Coppa Campioni col Liverpool…
«Non eravamo pronti per giocarla, soprattutto a Roma. Abbiamo incontrato la squadra più forte del mondo, il giorno della finale ad alcuni dei nostri tremavano le gambe, loro erano tranquilli».
Fu complicato mantenersi a quel livello?
«Ogni anno rischiavamo di andare fuori mercato. L’avvento di Berlusconi ha significato uno stravolgimento per l’azienda calcio a conduzione familiare, non eravamo più competitivi. Viola, dal punto di vista sportivo, è morto al momento giusto».
Un’espressione forte, non trova?
«Le cose potevano solo peggiorare. Lui non si sarebbe mai privato della Roma, non avrebbe mai cercato un partner».
Viola e Liedholm che coppia erano?
«Si completavano. Uno pressava e l’altro sdrammatizzava, così papà creò il “violese”, un linguaggio che nessuno capiva. Le conversazioni più divertenti erano quelle sui giocatori da prendere».
Ci può raccontare qualche aneddoto di mercato?
«Quando ci segnalarono Falcao, andammo a vederlo in Spagna. Chiamai mio padre e gli dissi: “È buono, ma quello forte è Batista”. Quello che poi andò alla Lazio. Ho rischiato di fare un danno…Con Eriksson siamo stati ad un passo dal prendere due grandi campioni».
Chi erano?
«Gary Lineker e Ruud Gullit. Eriksson avrebbe voluto rivoluzionare la squadra, ce li segnalò, ma non li prendemmo. Ero ad Amsterdam per vedere Gullit e telefonai a Viola, gli descrissi il giocatore ma quando arrivai alle treccine mi fermò. Era troppo per lui».
A molti tifosi ancora bruciano le cessioni di Ancelotti e Cerezo.
«Per entrambi arrivarono offerte economiche irrinunciabili. Non ci furono altre motivazioni. Sono stati gli unici due, facendo una battuta possiamo dire che negli ultimi anni sono state molte di più le cessioni».
Visti i bilanci dell’attuale proprietà, rischiano di essercene altre.
«Preferisco non parlarne…».
Il paragone con Viola sarebbe ingeneroso per tutti.
«Non per Franco Sensi. Le due presidenze si possono accostare, entrambi avevano un percorso di amore e di dignità per la Roma, entrambi hanno lasciato un po’ della loro salute. Anche Sensi si è trovato di fronte ad un mondo del calcio che cambiava con l’ingresso delle multinazionali. La Roma non è un’azienda ma un patrimonio dei tifosi».
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Solo Sensi può essere accostato a Viola per l’amore verso la Roma. L’attuale proprietà? Preferisco non parlarne