SAPESSE CONTESSA, I TAVOLINI
Le associazioni dei residenti del centro storico si scagliano come un sol uomo contro i tavolini all’aperto, sostenendo che non si può uscire da casa e «dover fare lo slalom» tra gente seduta che prende un drink o un caffè. Hanno ragione. Meglio fare lo slalom tra disoccupati e picchetti di persone esasperate, che presto o tardi (le prime avvisaglie ci sono) vedremo qui e là a sporcare il decoro e l’eleganza della nostra città.
Se fosse ancora in vena, Paolo Pietrangeli potrebbe ispirarsi per un testo più dolce (certo, stiamo pur sempre parlando di aperitivi e ombrelloni), ma non tanto diverso nel senso dal suo celebre «Contessa»: «E pensi che ambiente/ che può venir fuori/ Non c’è più morale, contessa». Ma la situazione che il nostro Paese sta vivendo, e Roma in particolare – con la distruzione del turismo e del commercio, tra le prime fonti di reddito – non può essere riassunta o risolta da una canzone. Il problema cui siamo davanti è ben più serio, e pregiudica non solo il 10 per cento del nostro Pil ma anche il futuro di molte famiglie.
Che cosa abbiamo di fronte? Innanzi tutto una pandemia che ha costretto in Italia, per le misure adottate, milioni di piccoli imprenditori, e tra loro commercianti, albergatori, baristi e ristoratori, ad azzerare il reddito con la promessa di una cassa integrazione in deroga per moltissimi mai giunta. Ci sono quindi, in città, decine di migliaia di persone, dipendenti da quei piccoli imprenditori, che da tre mesi non vedono un euro.
Per dare una risposta concreta, il governo - lo stesso governo che colpevolmente non ha velocizzato l’erogazione delle casse integrazioni - ha concesso ai Comuni l’estensione degli spazi all’aperto di molte attività: da un lato per garantire distanziamento tra i clienti, dall’altro per soccorrere chi, non fatturando da mesi, ha adesso la possibilità – sebbene il turismo sia fermo - di recuperare qualcosa vista la bella stagione.
Il Campidoglio ha raccolto l’invito, promettendo metri quadri in più e molti bar e ristoranti si sono subito adeguati, allargando i dehor. Una misura temporanea ma indispensabile per soccorrere migliaia di famiglie.
Ed è qui che Pietrangeli potrebbe cominciare a sorridere. Che cosa è successo, infatti? Le associazioni dei residenti del Centro, ben sette, indignate da questo proliferare di tavolini hanno deciso di presentare ricorso al Tar per bloccare tutto. «Non possiamo fare lo slalom…». Hanno ragione. Meglio fare lo slalom, lo ripetiamo, tra camerieri inferociti, mutui da pagare, famiglie in ginocchio.
In questa vicenda, come e più di altre volte, si fronteggiano due culture prima ancora che due città. Sarebbe facile dire che da un lato ci sono gli snob o i radical chic e dall’altro la vera Roma (fatta anch’essa, lo sappiamo, di virtù e colpe: chi non ha peccato scagli il primo spritz). Non è questo il punto. Quel che oggi rende emblematico lo scontro è la comprensione, o mancata comprensione, dei fatti. Mettiamoli in fila: c’è una pandemia in corso con le sue code velenose; ci sono stati moltissimi morti e tantissimo dolore; stiamo faticosamente uscendo dalla paura e molte famiglie ne stanno venendo fuori con le ossa rotte; c’è bisogno di interventi urgenti per ridare ossigeno e fiducia.
Questi i fatti. Ma l’appartenere a diverse culture altera spesso la percezione di tutto ciò. Se abito in un appartamento in Centro e m’accorgo che la mia passeggiata nel quartiere è diventata improvvisamente uno zigzag tra tavolini, onestamente mi indigno. Ma se io sono un cameriere di un ristorante di Borgo e non ho preso in tre mesi un solo euro, esattamente come mia madre che lavora in una tavola calda in periferia, che faccio? Mi indigno anch’io. Per altri motivi, per altra cultura.
Non si tratta a questo punto di una guerra di classe, ma poco ci manca: da un lato le ragioni del decoro, dall’altro le ragioni di chi non può fare la spesa.
In un tempo così preoccupante per il Paese, che non ci aspettavamo proprio di dover vivere con tanta repentinità, si dovrebbe avere altro spirito. Affidarsi (per la prima volta, Contessa) al senso della solidarietà: capire che c’è chi ha altre priorità, altri drammi in corso, forse più gravi della nostra passeggiatina a zig-zag, e dare una mano, chiudendo magari un occhio fine a dicembre.
Certo, si tratta di avere regole chiare, controlli, evitare che in nome dell’emergenza si faccia a pezzi per sempre quel che resta della nostra Grande Bellezza (e poi chi l’ha detto che più tavolini all’aperto siano brutti?). Ma le ragioni dell’estetica, comunque sia, in certi momenti cupi vanno per un po’, con sofferenza, messe da parte. Il perché lo sanno tutti: la pandemia, cara Contessa, non è un pranzo di gala.