Shepard Fairey, la street art voce del dissenso
A via Crispi la personale di Shepard Fairey, star dell’universo street: le sue opere in dialogo con quelle del museo
Il dissenso di Shepard Fairey, in arte Obey, ha i colori sgargianti della comunità afroamericana, si tinge di verde Wall Street nei poster-banconote con stampato il sorriso di Nixon, esplode nei fiori sanguigni che otturano le canne dei fucili, ha il viso velato delle tenaci donne arabe e gli implacabili occhi cerchiati di Andre The Giant (il campione di wrestling alter ego ufficiale dell’artista statunitense).
Un dissenso lungo trent’anni – partito nel 1989 dai muri tempestati di adesivi con il volto del lottatore – che si è materializzato in illustrazioni capaci di calzare con uguale intensità il formato tascabile degli stickers e quello imponente dei murales. Di sublimare la dimensione urbana del manifesto per diventare arte da propaganda di massa: pro pacifismo e anti razzismo, per i diritti umani e contro la violenza sui minori, a sostegno delle donne e contro lo sfruttamento ambientale. In una miscela di pennellate e consapevolezza civica che oggi approda a Roma dialogando – sorprendentemente – con la collezione della Galleria civica d’arte moderna nella mostra «Shepard Fairey / 3 decades of dissent», curata dallo stesso urban artist insieme a Claudio Crescentini, Federica Pirani e la galleria Wunderkammern (fino al 22 novembre).
L’allestimento è senza precedenti (e probabilmente irripetibile), con trenta opere grafiche targate Obey – compresa la celebre Hope con il volto in quadricromia di Barack Obama – che trovano posto accanto ad altrettanti lavori selezionati nelle raccolte della Sovrintendenza capitolina dallo stesso Fairey. «I criteri di scelta? Diversi per ogni abbinamento», rivela Crescentini. C’è la semplice affinità cromatica del suo Chomsk con Azzurro Arancio di Carla Accardi, la femminilità potente che unisce Make art not war a L’angelo dei crisantemi di Giuseppe Carosi, la sintonia politica del suo martello
Hammer con Compagni, compagni di Schifano e la riflessione sull’attivismo che avvicina il volto del reverendo Jesse Jackson all’autoritratto di Renato Guttuso.
«Fairey apprezzava già Turcato, Pascali, Balla e molti altri italiani – commenta Crescentini – ma l’esplorazione della nostra collezione lo ha sorpreso, rivelandogli inaspettate coincidenze con il Futurismo e autori come Scipione, di cui ha voluto associare Il Cardinal Decano al suo Exclamation. O come Ersilia Cavaciocchi Giunta, con la Vergine dell’Ogaden a confronto con le istanze del movimento Black lives matter del suo recente Bias by numbers». Il risultato è un percorso espositivo che somiglia a un gioco di specchi distopici e posiziona definitivamente la sua urban art nella storia dell’arte. A impreziosire la visita alla Gam anche la mostra «Sten Lex. Rinascita», ospitata in contemporanea, con una selezione di opere recenti del duo di muralisti italiani, pionieri dello stencil poster.