PROGETTARE LA CAPITALE DEL FUTURO
Qualche giorno fa, presentando la Scuola di Servizio Civico, Francesco Rutelli ha contraddetto la convinzione secondo la quale «la città è resiliente e tornerà quella di prima». In pochi mesi, dice l’ex sindaco, la pandemia ha costretto le metropoli di tutto il mondo a rivedere le linee di tendenza sullo sviluppo urbano. Una riflessione importante su un tema chiave: Roma merita la mobilitazione di tutte le intelligenze migliori (e sono tante) per ragionare sul suo futuro, anche nel corso di iniziative pubbliche.
Oggi siamo nel mezzo di due atteggiamenti contrapposti. Da un lato c’è chi pensa che, una volta passata la nottata virale, grazie al sole del vaccino imminente, la luce tornerà a splendere come sempre, svaniranno le tenebre, riavremo la normalità. Dall’altro c’è chi cade nell’eccesso opposto: poiché niente sarà più come prima, bisogna progettare, e in fretta, un mondo nuovo. Alla propagazione di questi opposti estremismi contribuiscono sia le visioni radicali che gli interessi in gioco. Esemplare è l’enfasi sul «declino urbano». La crisi Covid fa dire ad alcuni che le grandi città, così come le conosciamo, sono avviate sul viale del tramonto. Secondo questa visione, scende la notte sulla città «densa» (ovvero la città) e sorge l’alba sulla città «sparsa».
Ma siamo sicuri che questa sarebbe la strada migliore per la Capitale? Un esperto di sviluppo urbano come Roberto Camagni fa notare come il de profundis alle metropoli sia stato intonato più volte nella nostra storia recente.
Espesso per una ragione: dichiarare esausta la città è la base che legittima le nuove costruzioni nelle periferie. Ma non è detto che tirar su nuovo cemento (Roma ne sa qualcosa) sia preferibile a migliorare – e anche di molto, usando tutta la tecnologia più appropriata – l’esistente.
La tecnologia, appunto. Anche qui, nella discussione in corso, si mescolano buoni argomenti e posizioni spinte da interessi economici (legittimi, ma da tener presenti) di chi la tecnologia la vende. Un buon argomento, per esempio, è l’esigenza di sviluppare nuove forme di lavoro che affianchino, senza metterle in contrapposizione, attività in presenza e da remoto. Cioè il lavoro cosiddetto ibrido.
Ma questo le aziende e le amministrazioni migliori lo stanno facendo da tempo, ben prima che esplodesse la pandemia: semmai il virus accelera l’innovazione. Un cattivo argomento è l’idea che basta un poco di zucchero e la pillola va giù, cioè che con un po’ di connessione e di telepresenza, anche senza rivedere profondamente le organizzazioni (pensiamo ai ministeri), si possa risolvere il problema.
Le grandi città, dicono gli studiosi più seri, non sono affatto al tramonto, come dimostra la forte crescita del loro Pil tra il 2000 e il 2018. Roma, oltre ai noti «contro», ha molti «pro» dalla sua: bellezza a parte, è ad esempio molto più policentrica di Milano. E’ il momento più adatto per progettare concretamente il suo futuro mettendo in campo i migliori progetti per il Recovery Fund: possibilmente pochi ma buoni.