Lo sguardo di Siragusa
Al Museo di Roma in Trastevere cento scatti del pluripremiato fotografo raccontano la periferia della città e le sue contraddizioni
A colori Insegne, parcheggi, alberi, palazzi e palazzine, cartelloni, lamiere e street art
La città che i turisti non vedono. Quella, però, dove la maggior parte della gente vive, fatica, dorme, fa la spesa, aspetta l’autobs, parcheggia (anche in doppia fila), compra, consuma... Perché forse è facile fotografare la Roma monumentale, archeologica o barocca. Meno facile, però, comporre un’antologia di immagini — tanto documento, quanto poesia — puntando l’obiettivo su palazzoni e palazzine, su cartelloni pubblicitari e insegne qualunque, su lamiere e ringhiere, su scritte sui muri (e l’ormai immancabile street art) o cavalcavia. In una parole, sulle periferie di Roma, soggetto unico e tema della mostra personale di Massimo Siragusa, curata da Giovanna Calvenzi e aperta da oggi al 10 gennaio nel Museo di Roma in Trastevere.
Siragusa, classe 1958, vive da anni a Roma, dove insegna fotografia all’Istituto Europeo di Design. Rappresentato in Italia dall’Agenzia Contrasto, vanta numerosi premi tra qui quattro World Press Photo (2009, terzo Premio Contemporary Issues; 2008, secondo Premio Arts Stories; 1999, primo Premio Arts Stories; 1997, secondo Premio Daily Life). Qui presenragusa,
una selezione di cento scatti che raccontano, senza la facile seduzione del bianco e nero, una città tanto sgargiante e caotica quanto silenziosa, dove la presenza umana è, in realtà, un’assenza. Eppure Roma, anche quando non sono i ruderi del’antico Acquedotto a suggerirla direttamente, a un occhio attento è pur sempre riconoscibile, con una sua koinè e una sua identità che la distingue nell’indistinto calderone delle metropoli contemporanee.
Un viaggio nelle periferie romane, quello di Massimo Sita capace di restituire il caos visivo trasformandolo, nel suo insieme, in «canto» proprio grazie all’anarchia tematica e architettonica. «Le sue periferie — scrive Giovanna Calvenzi nel libro che accompagna la mostra — non hanno bisogno di nomi, si inseguono diverse e uguali, sono il limite, i margini di una metropoli che può espandersi o implodere, che si è sviluppata incurante dei vincoli o dei suggerimenti di una qualsiasi legge urbanistica, del rispetto delle cromie o degli spazi altrui. Sappiamo che è Roma perché surrettiziamente, ogni tanto, emergono statue o capitelli che ce lo ricordano, e tuttavia non potremmo essere altrove. Qualcosa nell’aria, nella luce, ma soprattutto nella divertita anarchia che ignora vicinanze, storia, ricordi, progetti futuri, ci conferma dove siamo. Questa è la periferia di una città dove tutto è possibile e tutto è impossibile, dove davanti alla vetrina di un parrucchiere unisex possiamo mettere un soldato romano, dove ognuno, nello stesso stabile, può scegliere una diversa cassetta delle lettere, a proprio piacere, dove tegole amianto e ferro battuto possono convivere». Nel volume edito da Postcart, oltre allo scritto della curatrice, una sceneggiatura inedita di Ugo Gregoretti, un testo di Marco Maria Sambo e un racconto di Tommaso Giagni.
Tema La metropoli che i turisti non vedono, quella però dove in tanti vivono