All’Argentina Uomo senza meta apre la stagione
Uomo senza meta di Arne Lygre, con la regia di Giacomo Bisordi, inaugura stasera la nuova stagione del Teatro Argentina
Peter è un imprenditore illuminato e di successo, pieno di progetti e iniziative. Al culmine di tali progetti, la decisione di fondare una nuova città sui terreni incontaminati di un fiordo norvegese. Un’impresa ovviamente encomiabile, attorno alla quale si riuniscono coloro che sembrano essere i suoi affetti più intimi e familiari: la exmoglie, la figlia e un fratello. Ma trent’anni dopo la realizzazione della città, questi personaggi, familiari, sembrano non avere memoria.
Uomo senza meta è il dramma dell’autore norvegese Arne Lygre, scritto nel 2005, per la prima volta rappresentato in Italia, in scena al Teatro Argentina oggi, con la regia di Giacomo Bisordi e con un folto gruppo di attori. Nel ruolo del protagonista, Francesco Colella, con Monica Piseddu (la ex moglie), Anna Chiara Colombo (la figlia), Aldo Ottobrino (il fratello), Giuseppe Sartori (Proprietario).
«L’uomo del titolo non è senza meta in quanto essere umano — spiega Bisordi — ma in quanto singolo individuo che disvela un’intera umanità. Siamo di fronte a una vicenda profondamente metaforica, una parabola, dove ogni personaggio appartiene a un’allegoria più vasta sulla perdita di senso. Peter abbandona tutte le sue precedenti attività per inseguire un’utopia, ma le persone da cui è circondato non sono dei veri parenti, non è una vera famiglia, bensì sono una sorta di comparse che lui ha pagato per anni proprio per interpretare dei ruoli, rinunciando alla propria identità in favore dell’imprenditore. E cosa succede quando degli individui accettano di assumere l’identità di altri, per assecondare l’utopia di qualcuno? È questa la domanda principale cui il testo mette di fronte».
Lo spettacolo, prodotto dal Teatro di Roma-Teatro Nazionale, è stato messo in prova lo scorso luglio, presentato al pubblico in una serata aperta al processo creativo della messinscena. È stato quindi il primo gesto «in presenza» grazie al quale il Teatro Argentina è tornato a essere vissuto e abitato da attori e pubblico. Un lavoro che si è confrontato con le nuove esigenze di produzione teatrale imposte dalle regole sanitarie. «Il sistema di cui si fa simbolo Peter — riprende il regista — è quello capitalistico, nel quale è possibile vendere e comprare ogni cosa. E i personaggi di cui si circonda sono morbosamente attaccati alla paga che ricevono. Il testo affronta quindi una questione cruciale: il modo in cui il sistema economico, dove viviamo, è capace di disegnare un sistema affettivo deformato, compromettendo la nostra stessa capacità di stare assieme ai nostri simili».
Un personaggio reale dell’attualità che potrebbe somigliare a Peter? «Mi viene in mente Steve Jobs: carismatico, visionario, venditore di sogni come altri suoi colleghi della Silicon Valley, ma che muore risucchiato dalla sua stessa invenzione. Così il personaggio di Lygre: si spegne in seguito a una malattia che lo esaurisce. Forse ha raggiunto il senso della sua vita e, realizzando il suo sogno, non ha più mete. O forse coloro cui ha dato un senso, finiscono per divorarlo, succhiandolo come vampiri». La vicenda si svolge nel corso di trent’anni. La messinscena inizia sul palcoscenico nudo e, man mano che la trama procede, calano una serie di sipari. Lo spazio in cui si muovono gli attori si chiude alle loro spalle, spingendoli progressivamente verso la platea: «A un certo punto non possono più tornare indietro». Verranno coinvolti gli spettatori? «Sarebbe bello, ma per via del Covid impossibile: oltre i due metri di distanza non si può andare. Lavoreremo sul coinvolgimento emotivo».