IL GIUBILEO DELLA BUONA TAVOLA
Riaprono lunedì con la solennità di un Giubileo cacio e pepe, con incommensurabile ed euforico sollievo di esercenti e avventori in astinenza, ovvero tutti noi, che cortesemente vorremmo essere considerati ad applaudire in piedi sul solito tavolo a sinistra sotto la finestra, dal quale per molte settimane siamo stati spietatamente allontanati. Perché diciamolo, è stata proprio dura, e non solo per l’obbligo di sobrietà e la dieta che ci hanno fatto così male. È stato che, coi ristoranti chiusi, Roma non era più Roma, era una signora invecchiata male, era annoiata e un po’ mortificata. Nemmeno riusciva a respirare. Uno che se ne fa di Trastevere o Testaccio, del centro storico e del Ghetto, se quei rioni poi non ce la fanno a respirare? Che se ne fa di arte e storia e memoria e tutto il resto, se questo ben di Dio diventa cianotico, e a onor del vero non hai un bell’aspetto neanche tu? Sia ben chiaro: uno ovviamente di Trastevere e Testaccio e tutto il resto se ne fa molto, moltissimo, anche a digiuno, anzi per gratitudine dovrebbe inginocchiarsi, anche senza possibilità di magna e beve, anche se giù legnate sull’economia della ristorazione e sul turismo.
Ma non è solo questo che ci aveva resi orfani, disabitati, smarriti nel solco sterminato delle assenze.
Quanta solitudine, senza quegli adorati fantasmi amici nostri che da secoli si aggirano per osterie. Caravaggio, Goethe, Picasso, Guttuso, Pasolini, Fellini e Flaiano, Sordi, Magnani, Mastroianni, Callas.. chiunque. Dite un nome qualsiasi di una qualunque eccellenza artistica del Novecento o prima ancora, ed eccolo lì, l’eccellente, a discutere d’arte in trattoria con altri eccellenti come lui, a creare correnti artistiche o scuole di pensiero, a vergare pagine di romanzi o spartiti o disegni che di lì a poco varranno una fortuna sulla tovaglia di un tavolo da pranzo, tra una vignarola e un fiasco di vino dei Castelli che, com’è noto, aiuta moltissimo l’ispirazione. Ecco, ad esempio, certi futuri grandi pittori in una trattoria sulla Flaminia negli anni Sessanta, a scambiare con un furbo oste una porzione di gricia o un carciofone alla giudia con un quadro o un disegno sopra un tovagliolo, come mirabilmente ci racconta nel libro «Osteria dei pittori»lo sceneggiatore Ugo Pirro. Perché era così, nelle sue osterie Roma «nutriva» l’arte. E l’arte nutriva Roma. Che riprenderà a respirare il profumo della sua stessa storia. Mescolato all’irresistibile profumo di un’amatriciana.