Lucia Goracci, uno sguardo sul mondo in guerra
La giornalista Rai oggi riceve il Pavoncella «Per me non c’era altro mestiere che questo»
Ha raccontato per la Rai le ultime ore di Kabul, sfidando con coraggio l’ira dei talebani. Prima ancora ha alternato il suo impegno di inviata tra Medio Oriente e America Latina. Attualmente corrispondente dagli Usa, Lucia Goracci, che oggi riceve a Sabaudia il Premio alla creatività femminile Pavoncella, presieduto da Francesca D’Oriano, è protagonista di un lungo percorso professionale. Ma da dove nasce la sua passione per il giornalismo? «Mi sembra di aver sempre fatto questo mestiere - risponde - Ho cominciato da bambina, quando ascoltavo i racconti di guerra di mio nonno Tito. Poi la scintilla mi è scattata leggendo il libro Niente e così sia di Oriana Fallaci sulla guerra in Vietnam. Di lei una cosa, tra le tante, vorrei avere, il suo non mollare mai. La guerra mette noi esseri umani alla prova, puoi uscirne malissimo ma genera anche atti di eroismo: quello che ammiro, in un conflitto, è la gente comune che sopravvive, le madri che portano in salvo i figli. Un giorno a Mosul, uscivano dai bombardamenti le donne e una di queste aveva tra le braccia un fardello: era il suo bimbo, un mucchietto d’ossa. Me lo tende, chiedendomi: “Aiutatemi a trovare un ospedale!”. Ma in guerra trovi anche la vita. Scriveva Ungaretti: “Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”, una frase che tutte le sere, a fine giornata di lavoro, con le pareti dell’hotel che tremavano per le bombe, mi saliva alla mente durante la guerra a Gaza. Però il nostro lavoro è il risultato di un team e devo menzionare l’operatore Miki Stojicic, che mi ha affiancato nelle guerre degli ultimi 11 anni».
Per una donna è più difficile fare l’inviata di guerra? «Per me non c’era altro mestiere che questo: lo considero un privilegio. Non so se ci sia un modo femminile di raccontare le guerre, ma lo sguardo di una donna non si posa mai principalmente sugli eserciti, ma sui civili. Ho sempre concepito il giornalismo come giornalismo di guerra. Cosa c’è di più grande e forte di poter raccontare la resistenza di Kobane, la battaglia delle ragazzine afghane per il diritto allo studio, la protesta degli iraniani?». Ma non sono mancati i momenti in cui ha temuto il peggio. «La paura è sana, è saggia, specie quella che, il giorno dopo, non ti impedisce di rimetterti in movimento. Le guerre attuali sono sporche e il pericolo ti piove addosso. A volte, un fischio nelle immagini che hai filmato, mentre le riguardi al computer, ti segnala quanto vicina ti sia passata una pallottola. E poi il senso di vertigine, quando fai l’ultimo salto e non puoi tornare indietro. Stai morendo di paura, ti chiedi se ne valga la pena, poi vai avanti, perché ne vale la pena».