S. CAMILLO, L’INDAGINE A METÀ
C’è una parola, inserita nel resoconto dell’audit disposto dall’ospedale San Camillo per fare luce sulla notte da incubo trascorsa da una paziente 47enne al pronto soccorso, che senza volerlo sancisce una distanza siderale tra autorità sanitarie capitoline e popolo dei malati. Cioè, potenzialmente, tutti noi. Questa parola è: «Immagine».
Secondo la direzione dell’ospedale sulla circonvallazione Gianicolense, il racconto fatto al Corriere dalla signora Antonella Vittore, funzionaria di un ente pubblico, vittima di un incidente in motorino lo scorso 24 maggio, trovatasi per 18 ore in una situazione di caos ai limiti dell’indescrivibile (e con un morto dimenticato nella barella a fianco a lei), avrebbe «leso l’immagine» del nosocomio.
Benissimo: prendiamo atto. Ma è proprio questo il punto? Per rimettere in sesto il travagliato sistema ospedaliero romano, che fa emergere quotidianamente storie di disservizi e di disperazione dei cittadiniutenti, la stella polare da tener presente è quella del «decoro» da salvaguardare o della reale capacità di intervenire, anche a costo di severe autocritiche, ove esistono criticità?
L’audit del San Camillo, da questo punto di vista, non risponde alla domanda diffusa di una sanità che funzioni: sembra infatti mirato esclusivamente a confutare le parti del racconto della signora Vittore involontariamente inesatte o incomplete (laddove si precisa che il defunto è stato sì abbandonato in promiscuità con i vivi, ma attenzione, solo «per pochi minuti»), e però sorvola su ciò che al contrario dovrebbe preoccupare moltissimo chi governa la struttura. La lista è lunga: decine e decine di malati ammassati in un unico spazio, pazienti lasciati nudi sotto gli sguardi di tutti, richieste inevase per ore di un sorso d’acqua, un antidolorifico o di essere puliti dalle proprie feci, infermieri che fingono di non vedere, dottoresse sgarbate, tempi infiniti (3, 5, 10 ore) per una visita cosiddetta urgente. Fino alla scena finale, una sorta di sigillo della baraonda: la malata che firma le dimissioni e se ne va gridando «meglio morire a casa che qui!» Ebbene, a tutto questo l’audit realizzato a tempo di record dall’azienda San CamilloForlanini per conto del direttore generale Narciso Mostarda non dedica una riga: le verifiche, svolte peraltro senza ascoltare la denunciante, si sono fermate a metà. È troppo chiedere un supplemento d’indagine?