Quella pioggerellina svanita
Solo chi vive o ha vissuto per anni in campagna può capire i problemi che i ricorrenti cicli di siccità possono arrecare nel Lazio. Da bambino, nato nel 1934 e costretto con la famiglia a passare tanti anni da «sfollati» in una nostra proprietà dell’Alto Lazio, posso confermare come il calo delle precipitazioni sia cresciuto dagli anni della mia infanzia.
Apoco a poco, la «pioggerellina di marzo» (da una famosa poesia di Angiolo Silvio Novaro) che ristorava la campagna è divenuta rara e anche le piogge primaverili e autunnali che irroravano i campi sono assai meno frequenti.
Ricordo benissimo i pozzi (con relativi secchi zincati) che ogni casa colonica aveva per i bisogni delle famiglie, e i fontanili per abbeverare il bestiame e lavare i panni. Oltre ai pozzi, a poca distanza dalla casa di famiglia e a quelle dei mezzadri, sgorgavano dalle forre scavate nel tufo esigue sorgenti che creavano limpidi torrentelli e ruscelli dove noi bambini pescavamo gamberi di fiume e alborelle.
Da pochi anni ormai le sorgenti sono scomparse e con esse gamberi, rane rosse, salamandrine e altre creature acquatiche.
D’altra parte che tali fenomeni di siccità fossero ricorrenti anche nel lontano passato, è testimoniato dalla rete di cunicoli di origine etrusca e falisca che dai valloni tufacei portavano ai paesi della Tuscia l’acqua dei fiumi e torrenti provenienti dal soprastante Lago di Vico.
Dalle vene sotterranee discendenti dal complesso vulcanico dei Cimini proviene la falda freatica che alimentava pozzi e sorgenti della mia infanzia e oggi, molto più profonda, è al servizio degli attuali acquedotti comunali, dei noccioleti e spesso anche delle piscine e prati all’inglese delle nuove case di vacanza.
Restando ai danni all’agricoltura, l’attuale imperversante riscaldamento climatico, causato dall’irresponsabile uso di combustibili fossili, peggiora le cose e rende sempre più problematiche le produzioni agricole.
Ricordo quando mio padre, preoccupato per le ricorrenti siccità, mi mandava, prima della mietitura, a esaminare le spighe di grano i cui semi apparivano spesso striminziti, forieri di grami raccolti, simili a quelli che, negli jugeri assegnati ai veterani romani delle guerre di conquista, non superavano i 10/12 quintali l’ettaro.
Quando, negli anni 40, il frumento trebbiato superava i 12 quintali, si faceva grande festa.
Oggi, dai nostri cereali coltivati con sistemi biologici privi di pesticidi e fertilizzanti chimici e dipendenti dalle sempre più scarse precipitazioni, un raccolto di 20 quintali l’ettaro ci sembra ancora accettabile.