Per la morte di Desirée confermati gli ergastoli La mamma: un po’ di pace
La mamma Barbara: «Questa sentenza ci dà un po’ di pace, ma nessuno ci restituisce mia figlia»
Pene confermate: carcere a vita, così come deciso in primo grado, per i due principali responsabili dell’omicidio di Desirée Mariottini, la 16enne uccisa la sera del 18 ottobre 2018 a San Lorenzo. La mamma: «Questa sentenza ci dà solo un po’ di pace ma nessuno ci restituisce mia figlia».
Pene confermate: carcere a vita, così come deciso in primo grado, per i due principali responsabili dell’omicidio di Desirée Mariottini, la 16enne uccisa la sera del 18 ottobre 2018 in un covo di spacciatori nel quartiere San Lorenzo. Ergastolo dunque per Yusif Salia, 36 anni, e Mamadou Gara, 30 anni. Il 47enne Brian Minteh ha avuto 24 anni e sei mesi, mentre il 50enne Chima Alinno 27: anche per questi due imputati la Corte d’assise d’appello ha confermato la decisione precedente.
«Questa sentenza ci dà solo un po’ di pace ma nessuno ci restituisce mia figlia, il dolore per la sua morte lo sento ogni giorno. Sono quattro mostri e devono stare dietro le sbarre», dice la mamma Barbara Mariottini, in aula insieme alla nonna di Desirée, Patrizia Massoli.
L’accusa per i quattro imputati è di concorso in omicidio volontario e violenza sessuale di gruppo, nonché della cessione di sostanze narcotiche e psicotiche, tutti reati aggravati dall’età della ragazza e dalla condizione di impossibilità di difendersi in cui era stata ridotta. Per dodici ore l’adolescente di Cisterna di Latina rimase in balia dei pusher, venendo ripetutamente violentata prima di morire a causa delle sostanze assunte in gran parte contro la sua volontà. L’accusa ha sempre sostenuto che i due senegalesi (Gara e Minteh), il nigeriano (Alinno) e il ghanese (Salia) fossero ben consci, data anche la loro «competenza» in materia, delle conseguenze potenzialmente letali per la ragazza quando la indussero ad assumere il complesso di droghe e farmaci con cui la ridussero a uno stato di incoscienza per poi abusarne a turno.
I quattro inoltre scelsero di lasciarla morire, e anzi impedirono ad altri di chiamare i soccorsi in modo tempestivo con una delle frasi simbolo del processo, durato oltre due anni in primo grado (anche per i ritardi dovuti al Covid): «Meglio lei morta che noi in galera».
Decisive, oltre alle tracce del Dna degli assassini rinvenute sotto le unghie della vittima, le testimonianze di alcuni soggetti che quella sera erano nel rudere di via dei Lucani a San Lorenzo. Lunghissimo l’elenco delle sostanze trovate nel corpo della ragazza, dall’eroina al metadone fino al Quentiax 300, un potente antipsicotico usato in genere per curare schizofrenia e disturbi bipolari.