«Pasolini Caravaggio»
Dal 2 dicembre lo spettacolo di e con Vittorio Sgarbi, il racconto di due maestri accomunati dallo stesso sguardo sulla realtà
Èil fiume in piena che ci si aspetta, Vittorio Sgarbi. Sollecitato dalle domande, parla di tutto. Della sua «contrarietà a ogni albo, ordine, misura di controllo» (in merito all’ipotesi di Beatrice Venezi, consigliere per la musica del ministro Sangiuliano,
Il sottosegretario «Sono contrario a ogni albo. Musei gratis? Non per i turisti, sì per i cittadini. Convincerò il ministro»
di istituire un albo dei critici musicali). Parla della gratuità nei musei: «La mia idea non è la gratuità assoluta — dice — occorre distinguere tra turisti e cittadini. I primi devono pagare, per loro è come andare al luna park. Per i cittadini è diverso. Se vado in biblioteca per leggere un libro di Machiavelli non pago. Lo stesso deve accadere se voglio vedere un quadro. Convincerò il ministro». Ma parla soprattutto del suo spettacolo, da venerdì a domenica in scena al Teatro Olimpico.
Un palco per due, come da titolo della pièce: Pasolini Caravaggio. Anzi, per quattro: perché a parte il suo autore/ interprete, Sgarbi, ci sarà spazio anche per il grande critico Roberto Longhi (1890-1970), l’uomo cui si deve la riscoperta — dopo l’eclisse post mortem del pittore — del genio Merisi. «Il primo che parla in maniera moderna di Caravaggio, intorno al 1910, è il fotografo Wilhelm von Gloeden, che a Taormina ricreò un mondo pagano senza nessun principio di moralità cattolica. Un mondo dominato dalla libertà sessuale, con ragazzi presi dalla strada e fotografati come Bacchi. Poi, nel 1951 a Milano, la grande mostra di Caravaggio, consacrato pittore della realtà, promossa da Longhi».
E Longhi, come ricorda Sgarbi, fu anche maestro di
Pasolini, il quale, ventenne, frequentò le sue lezioni all’università di Bologna. Un venerato maestro: «E anche Longhi — ricorderà Pasolini nel 1973 su Tempo —, che veniva e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di un’apparizione. Era, infatti, un’apparizione...».
E proprio la triangolazione Caravaggio-Longhi-Pasolini è uno dei (tanti) motivi a ispirare la messinscena. Con Sgarbi che non teme l’effetto «saturazione» dopo le mille celebrazioni per il centenario in corso. «Pasolini ora è dappertutto, si rischia l’indigestione. Ma è anche una personalità complessa che non finisce mai di essere attuale. A parte la produzione fluviale, Pasolini non si consuma... Credo si sentisse Caravaggio redivivo, una scoperta fatta proprio attraverso Longhi. Lui insegna, e il ragazzo Pier Paolo resta incantato sentendo questo mago della parola. Lì avviene il transfert».
Attenzione alla realtà — scenario di entrambi — sguardo, e non solo quello, rivolto ai ragazzi di vita: mille le affinità tra il pittore e il poeta corsaro, benché vissuti a secoli di distanza. Affinità fino a quello che Sgarbi definisce «effetto notte»: «Pasolini che alla stazione incontra il suo assassino, con lo stesso ghigno, da impunito, dell’Amore vincitore».
Amor vincit omnia, capolavoro di Caravaggio ora a Berlino, un tempo del marchese Giustiniani, che mostrava il quadro, di solito occultato da un drappo, a pochi ospiti. Nudità e volto sono quelli di Cecco, Francesco Boneri: l’allievo, il sodale, l’amante-ragazzino del genio.
Centenario
«Pier Paolo Pasolini è dappertutto, si rischia l’indigestione. Ma non finisce mai di essere attuale»