Barucci, 100 candeline di architettura
Compleanno del papà del Laurentino 38. «Ma ora Roma non ha visione del futuro»
Ènato qualche giorno dopo la marcia su Roma dei fascisti, che non gli sono mai piaciuti, sia chiaro. Cento anni tondi tondi, ricordati senza opacità, senza rimpianti, con una punta di orgoglio quando dice «non ho mai chiesto a nessuno di poter lavorare, mi hanno sempre offerto un lavoro». E ne ha fatti tanti di progetti, l’architetto Pietro Barucci. Committenti pubblici, piuttosto che privati. Ha progettato interi quartieri, dal
Laurentino 38 – una spina nel cuore, per come il sindaco Veltroni gli ha bombardato i «ponti» - a Vigne Nuove, Torrevecchia, il Quartaccio e tutto il resto. Dicono che il direzionale Caravaggio, alla Montagnola presso la Cristoforo Colombo, sia il suo capolavoro: uffici che sembrano fatti in questi anni, ma sono di oltre mezzo secolo fa. Dice: «Preferisco il Bauhaus alla Garbatella» tanto per mettere in chiaro il suo linguaggio architettonico razionalista e la sua avversione all’eclettico pittoresco che la star milanese Stefano Boeri vuol elevare a modello di riferimento per aggiustare le periferie romane su incarico del sindaco Gualtieri.
Vita, bella vita quella di Barucci. Ha ottenuto un «encomio solenne», come ufficiale di Marina nella Seconda guerra mondiale, per aver contribuito a difendere e salvare da un attacco tedesco la corazzata Vittorio Veneto. Poi l’università e la collaborazione con Adalberto Libera, grande esponente del razionalismo italiano del Novecento. E via con la professione, un lavoro tira l’altro sempre a livelli importanti. Gira per il mondo: Europa, Stati Uniti, Africa, Australia e Giappone. Si sposa con Beata Di Gaddo, una brava collega. Seguirà una pluridecennale relazione con l’amatissima Laura, scomparsa da qualche anno. Ha tre figlie. Fa la sua parte, a fianco dell’urbanista-assessore Vezio De Lucia, nella ricostruzione di Napoli dopo il terremoto dell’81, «un’esperienza intensa, limpida, piena di soddisfazioni». A Roma progetta – con altri - alcuni Piani di zona in cui non manca Tor Bella Monaca. Quando, nel 1997, visita il fantascientifico museo Guggenheim di Frank O.Gehry a Bilbao, molla la matita, chiude lo studio, dona l’archivio allo Stato e si ritira a vita privata. «L’architettura – disse - è andata troppo avanti per me». Vive da allora in via Margutta, nella bella casa dove è nato e dove di tanto in tanto riceve qualche amico cui offre il «tiriamo a Campari», un aperitivo beneaugurante di sua invenzione che prepara da sé. Con lui pare che funzioni come elisir di lunga vita. Formula segretissima, inutile cercare di carpirla.
Barucci, raro architetto centenario, spiega: «Sono stato fortunato sotto molti aspetti». Ma un’ombra sottile si allunga sui suoi racconti, sui ricordi. Vita di viaggi, amori, relazioni sociali, successi professionali, abiti di lino bianco come quelli dei personaggi del Giardino dei Finzi-Contini, tennis, barche. Ma amici veri, pochi. L’ambiente degli architetti lo ha tenuto un po’ a parte: un filino d’invidia? In questi giorni l’Inarch gli ha dato un premio alla carriera, ma dovevano aspettare che compisse cent’anni? Quando il Covid picchiava forte lui ha spronato i romani: «Resistete, passerà». Barucci non cede al passatismo, non dice mai «quelli erano tempi». Tuttavia gli anni in corso certo non lo confortano. «La corruzione dilaga. A me hanno chiesto anni fa una tangente allo sportello dell’Anagrafe, per sveltire una pratica
Le periferie
banale». Ne ha viste tante, troppe. Ce l’ha con quelli che furono i «palazzinari», lui campione dell’edilizia pubblica. Ha un ottimo ricordo di Carlo Odorisio, l’ottuagenario «pontefice» dei costruttori romani che gli ricambia la stima. La Roma di questo terzo millennio lo sconsola: «Va avanti a tentoni, senza una visione del suo futuro. Non era necessario che le periferie finissero come sono diventate ed ora è troppo tardi per rimediare».
Negli ultimi anni Pietro Barucci si è messo a scrivere. Libri che all’autobiografia mischiano le vicende della società romana, vizi e virtù. Una carrellata di mezzo secolo che oscilla tra neo-realismo e telefoni bianchi. Con, sullo sfondo, un lungo atto della commedia umana che fa ridere, che fa piangere. Che alla fine lascia lo sguardo asciutto, indifferente.
«Non era necessario che finissero come sono diventate. Ora è troppo tardi per rimediare»