«La mia insegnante, in lacrime, disse a mamma che dovevo lasciare la Mameli»
Romano Calò e i ricordi del ‘38. Domani la targa nella scuola per ricordare i bimbi ebrei
La mia insegnante, Pierina Borelli, ci aspettava come
giornon dia ogni :m madre notò subito che non era sorridente come sempre...
La signorina Borelli prese la mano di mia madre e, portandosela al petto, sussurrò con un filo di voce: “Signora Calò, Romano non può più frequentare questa scuola, sono in vigore le leggi razziali che proibiscono ai bambini ebrei di frequentare le scuole pubbliche”
Il brano appartiene a un suo diario privato, scritto anni fa. Ricostruisce quel lontano 1938 quando aveva otto anni e venne costretto a lasciare la sua scuola elementare, la «Goffredo Mameli», classe III sezione B, in via dei Genovesi 30 a Trastevere.
Domani alle 10.30, Romano Calò tornerà nella sua scuola ma stavolta per affidare alle nuove generazioni la Memoria dell’orrore delle leggi razziali volute dal fascismo: sarà presente alla cerimonia di affissione della targa che ricorda proprio l’espulsione di tanti bambini ebrei tra cui lui. È la nuova iniziativa della Adims-Associazione Docenti Italiani per la Memoria nelle scuole (presieduta da Tiziana Della Rocca, Lucilla Musatti vicepresidente, con le consigliere Serena Ciardi, Paola Boso e Marilena Cioffi) che è già riuscita, dopo una lunga battaglia, a far affiggere il 13 settembre 2023 una targa nella biblioteca del ministero dell’Istruzione per ricordare l’espulsione dalle scuole italiane di tanti alunni e docenti (in collaborazione con l’UceiUnione delle comunità ebraiche italiane). Un’altra targa è stata apposta il 24 marzo scorso nella scuola elementare «Regina Margherita», sempre a Trastevere, in cui si ricorda l’espulsione degli alunni ebrei e dell’insegnante Irma Sermoneta.
Calò conserva tante foto di quei giorni tra cui una particolarmente struggente: lui vestito da Figlio della Lupa in divisa, con la «M» bianca di Mussolini sul petto. Quello stesso Mussolini, come duce del fascismo, volle le leggi razziali (sottoscritte e divulgate poi da re Vittorio Emanuele III) che espulse bambini, maestri elementari, professori, docenti universitari dal mondo scolastico italiano.
Il diario di Calò somiglia ad altre testimonianze. Quella di Lia Levi, grande scrittrice della Memoria ebraica («Una bambina e basta», edizioni e/o, l’opera più nota, che ricorda proprio la sua espulsione) . E quella di Alberto Mieli, ora scomparso, che nel 2015 scrisse un libro con sua nipote Ester (oggi senatrice di FdI) «Eravamo ebrei/Questa era la nostra unica colpa» (Marsilio) in cui ricostruì il suo allontanamento dall’Istituto di avviamento professionale «Michele Bianchi» a Testaccio: anche in quell’occasione il preside, che Mieli ricordava come «serio, dignitoso, con una gran barba bianca», pianse comunicandogli la sua radiazione per le leggi razziali fasciste.
Domani la cerimonia. Calò è tecnicamente uno scampato alla Shoa (come Lia Levi e come era anche Alberto Mieli): cioè è riuscito a sottrarsi alla deportazione nazista tra l’ottobre 1943 e la primavera 1944. Il piccolo Romano prima venne nascosto in un convento e poi trovò ospitalità da amici di famiglia a Genzano e, così, riuscì a evitare la deportazione dei campi di sterminio.
Nel suo diario c’è il dramma del passaggio da una vita agiata a un imminente pericolo: «La vita per noi scorreva serena, ogni domenica si faceva una gita con la nostra automobile, con mio padre andavamo a sciare, facevamo gite in bicicletta. Ma un giorno a mio padre fu richiesto di sottoscrivere una dichiarazione di appartenere alla razza ebraica, per sé e per la sua famiglia». Da quel momento per i Calò finisce la serenità e comincia la tragedia: prima l’emarginazione, poi il terrore, la fuga.