Su quel ring si combattono i rancori
Miller racconta lo sport degli sconfitti e la loro psicologia. Con un Carrell in veste drammatica tanto bravo da sfiorare l’Oscar
Cinque nomination all’Oscar e nessuna statuetta. Vero, i film belli in gara erano parecchi, oltre al trionfatore Birdman di Alejandro González Iñárritu. Ma un riconoscimento a Foxcatcher, a Mark Ruffalo, a Channing Tatum e soprattutto a Steve Carrell, che dopo la comicità demenziale di Judd Apatow in 40 anni vergine e il remake Usa di The Office sfodera qui il suo talento drammatico, sarebbe stato più che meritato. Premiato per la regia al festival di Cannes 2014, il regista Bennett Miller scova la sua terza romanzesca storia vera nel mondo del wrestling. Pare grazie a uno sconosciuto che nel 2006, tra il successo di Capote – Asangue freddo e L’arte di vincere, gli fece pervenire qualche ritaglio di giornale sulla vicenda. L’intreccio tra i denari del miliardario John du Pont, gli ideali sportivi e le personali rivincite, la rivalità tra due fratelli di origini modeste entrambi campioni di lotta libera, fornisce un canovaccio già ricco ( all’origine, l’autobiografia scritta da Mark Schultz con David Thomas esce da Sperling & Kupfer). Il resto lo dobbiamo agli sceneggiatori Dan Futterman e E. Max Frye: lavorano sul materiale di partenza togliendo ogni traccia di retorica e sentimentalismo per mettere a nudo le aspettative deluse. I fratelli Schultz sono nell’albo d’oro della lotta libera per aver vinto sia le Olimpiadi ( nel 1984 a Los Angeles) sia i campionati del mondo. Mark ( Channing Tatum) dei due è il soccombente: parla pochissimo e a dispetto di una carriera non trascurabile vive nell’ombra del fratello maggiore Dave ( Mark Ruffalo), che lo aveva cresciuto dopo la separazione dei genitori. Solo Dave ha una famiglia, per controbilanciare le ore passate in palestra ( e gli sforzi eroici per perdere alla svelta i chili necessari a rientrare nella categoria). L’equilibrio, già precario, si spezza con l’entrata in scena dell’” ereditiero” John Eleuthère du Pont, solitario quanto Mark e in età matura ancora succube di una madre ( Vanessa Redgrave) che odia il wrestling. Da ragazzino aveva un solo amico, scopriamo poi a libro
paga della terribile genitrice. Volendone trovare una altrettanto spaventosa, dobbiamo risalire a Violet Venable in Improvvisamente l’estate scorsa, il film che Joseph L. Mankiewicz aveva tratto nel 1959 dal testo teatrale di Tennessee Williams ( la sceneggiatura era firmata Gore Vidal).
Il fascino dei muscoli. Il fratello cenerentola Mark riceve una telefonata dal miliardario. Gli sono venute a noia l’ornitologia e la collezione di conchiglie, vuole allenare una squadra di wrestling in vista delle Olimpiadi 1988 a Seul ( non la scelta migliore per far colpo su una madre che ama l’opera, ma i corpi muscolosi avvinghiati sul ring hanno il loro fascino). La proprietà di famiglia in Pennsylvania è imponente, con un sovrappiù di gotico e un’atmosfera mortifera — i trofei di caccia sono vicini ai quadri degli antenati — che la fa somigliare all’antro di un orco. Mr du Pont ( Steve Carrell appassito, in tuta, con un filo di voce e un naso gigantesco) appare tutt’altro che rassicurante. Il patriottismo, gli allenamenti spossanti, il progetto di ridare lustro alla virilità americana con la lotta libera, la cocaina a chili, fanno partire il conto alla rovescia che condurrà alla tragedia. Foxcatcher — è il nome del team — dura oltre due ore. Eppure non c’è nulla di inutile o di superfluo, in questo film sullo sport che sfugge allo schema dell’infanzia proletaria, del duro allenamento e della vittoria finale. A dare spettacolo, sono gli uomini con i loro rancori incrociati.