Carlo Rotondo
Popolo che guarda al futuro rinunciando all’Europa e rimpiangendo l’ Urss
Nelle notti d’estate, la piazza principale di Yerevan, in Armenia, è affollata di ragazze in canottiera e abitini corti che scattano foto alla grande fontana che solleva getti colorati sulle note di Verdi o sulle canzoni di Frank Sinatra. Un miscuglio d’acqua e colori che suscita un incredibile entusiasmo. Già nella capitale della Georgia, appena più a nord, lo stupore e la folla non sono gli stessi. E uno pensa: semplici e libere, queste ragazze d’Armenia. In realtà in buona parte sono iraniane: arrivano con i loro compagni e amici dal Nord dell’Iran. In molti casi sono curde: passano il confine e gettano alle ortiche veli e divieti. In gran parte sono alticce e assetate di una notte di libertà. Le armene ovviamente non mancano: sbucano dai vicoli che, appena dietro i viali e le piazze principali, nascondono impalcature e vecchie case in demolizione. Nessuno le vuol salvare, quelle case dai lumi incerti e con un groviglio di cavi fuori dalle finestre: il poco che era stato sottratto alla furia dell’edilizia sovietica, cade sotto i colpi di una politica orgogliosa e corrotta al tempo stesso, che gestisce una delle eredità più pesanti del mondo. Quest’anno gli armeni celebrano 20 anni di Costituzione democratica ( 1995), 25 anni di indipendenza dall’Urss ( 23 agosto 1990). E soprattutto cento dall’inizio del genocidio ( cominciò la notte tra il 23 e il 24 aprile 1915), portato a termine dai turchi e compiuto nella quasi indifferenza dell’Occidente. Ovvio: all’epoca c’era la guerra e per di più mondiale. L’ambasciatore tedesco, che tentò di protestare e chiese misure severe, fu messo a tacere dal suo governo: per carità, i turchi erano alleati fondamentali degli Imperi centrali.