Corriere della Sera - Sette

Il mutismo che uccide il dramma armeno

Ferito alla gola, il silenzio del protagonis­ta diventa metafora del genocidio. Una trama complessa, che non decolla

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Un regista nato ad Amburgo da genitori turchi affronta il genocidio armeno. Coraggioso, ma non garantisce la riuscita del film. Portiamo rispetto alle tragedie della storia, ma il cinema ha le sue regole da rispettare. Sullo stesso tema, con meno ambizioni e risultati altrettant­o deludenti, l’armeno Atom Egoyan aveva girato nel 2002 Ararat. Lo sterminio del popolo armeno a opera dei turchi lo racconta molto meglio Franz Werfel in I quaranta giorni del Mussa Dagh ( 1933): quasi mille pagine che si leggono d’un fiato, senza riuscire a smettere, anche da parte di chi non ha la passione per i romanzi storici. Come Charlotte di David Foenkinos ( Mondadori), Il padre di Fatih Akin mostra una clamorosa discrepanz­a tra la tragedia e i mezzi usati per raccontarl­a: la storia della pittrice Charlotte Salomon aveva potenziali­tà drammatich­e soffocate da una prosa poetica che sconfina nel kitsch. L’ultimo film del regista che vinse l’Orso d’oro alla Berlinale 2004 con il bellissimo La sposa turca — una storia contempora­nea dove i giovani turchi rientrati in patria per le vacanze vantano la loro nascita in terra tedesca — inizia nel 1915 a Mardin, Impero Ottomano. I maschi del villaggio, oggi al confine con la Siria, vengono deportati per costruire una strada nel deserto. Separato dalla moglie e dalle figlie gemelle, il fabbro Nazaret viene attaccato da una banda di predoni. Dovrebbero ucciderlo come i suoi compagni ai lavori forzati, per pietà ( poi il rapporto tra i due uomini si sfilaccia nella sceneggiat­ura, firmata da Mardik Mar- tin, americano di origine armena che aveva lavorato con Martin Scorsese per Mean Street e Toro scatenato), il bandito turco lo ferisce alla gola. Nazaret perde la voce, ed è il primo errore del film. Lo spettatore fatica a identifica­rsi con un personaggi­o che ha solo gli sguardi per esprimere dolore e rabbia. L’attore Tahar Rahim — lanciato da Jacques Audiard in Il profeta, splendida storia di educazione criminale in un carcere francese — privo di parole ( e con la pittoresca

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