Il nuovo Ringo? La tribute band di se stesso
L’ultimo album è ricco di citazioni e collaborazioni. C’è anche un brano scritto a 14 mani. Non si può proprio dirgli di no
Come alcuni dei miei 25 lettori avranno intuito, questa rubrica carsica è un piccolo abuso. Dovrebbe occuparsi di musica, talvolta lo fa pure, ma in realtà serve al tenutario per parlare di tutt’altro. Questo perché la vita, come la passiamo, come la sonorizziamo, è cosa troppo seria per prenderla di petto. Meglio trovare una via laterale. Persino quando è scintillante e madida di denaro/ gratificazioni/ capriolenelletto. No. Ovviamente non faccio riferimento al sottoscritto. Parlo di Ringo Starr. Che, certo, non sarà il Forrest Gump della Ludwig eternato da troppe leggende. Però è stato capace di mantenere e fortificare negli anni la costante espressione stuporosa di chi lo sa, com’è andata. E anche se nel frattempo ha imparato a usare le bacchette come se non fossero spazzole, s’è sempre ritagliato il ruolo del passante consapevole. Quando Paul McCartney lo chiama sul palco, nelle ormai frequenti riunioni dei FabTwo, pare ancora che abbia convocato uno della platea. Però poi cantanoWith a little help from my friend e tutto s’accende. Ringo è, appunto, laterale. Quando prestò le voce alle avventure del Trenino Thomas, il corrispettivo su rotaia dei Teletubbies, lo sostituirono dopo appena due stagioni. Anzi, se ne andò lui con una scusa risibile: « Devo occuparmi di musica » . Eppure eternò una volta in più l’etichetta di Beetle operaio, quello che non disse « Siamo più famosi di Gesù » ma « Mi piaceWoody Allen perché è più brutto di me » . Colui che nel ’ 70, per non saper né leggere né scrivere, prestò comunque le bacchette al primo album della Plastic Ono Band. Quello a cui in fondo non puoi dire di no. Solo Bob Geldof può vantare la stessa attitudine allo stalking. Con
I DISCHI DELLA SETTIMANA
un’importante differenza: mentre l’ex leader dei Boomtown Rats cerca nella luce altrui la fortuna musicale che gli ha arriso una volta sola ( a dicembre 2078 uscirà la versione in orbita di Do they know It’s Christmas), Ringo lo fa per piacer suo. E brilla di luce propria. O quantomeno di storia vissuta. Così, negli anni, la sua All Starr Band non ha mai faticato a trovare complici né in studio, né live: da Little Steven prima dei Sopranos a Nils Lofgren dopo Little Steven, passando per Clarence Clemons, Andy Summers dei Police, Christopher Cross, naturalmente Sir Paul, e via brillando. L’ultima lineup prevede tra gli altri Steve Lukather dei Toto, Peter Frampton, Todd Rundgren. A un concerto negli Usa è apparso pure Christopher Cross. In Postcards from paradise è presente addirittura un pezzo a 14 mani: Island in the sun, reggae vagamente claptoniano che è senz’altro il brano di beva più pronta dell’intero nuovo album. Tutte le altre canzoni contemplano un coautore stellato: You bring the party down, scritto a quattro mani con Lukather, va di sitar che è un piacere ( nostalgico) per l’anima. Rory and The Hurricanes ( con l’euritmico Dave Stewart) sembra scritto dai Supertramp che citano i Beatles ma ha un gran bel tiro. Richard Marx ha sparso elettronica nella title track è il risultato fa molto Eighties, ma si lascia ascoltare. Il riff di Touch and go sembra estirpato alla J. Geils Band, ma l’intro è quella di Please Please Me e alla fine, massì. Com’è, dunque when he’s 75, Ringo Starr davanti a un microfono? Divertente. Vario. Non originale, ma poi chissenefrega. Praticamente la tribute band di se stesso. Roba che se ascoltata, ti fare sentire tale e quale ai suoi colleghi quando squilla il telefono per l’ennesimo cameo: farai fatica a dirgli di no.