Guido Ceronetti: una vita segnata dal compagno di scuola Carlo Maria Martini
«Non ve ne siete accorti ma la Grande guerra non è mai finita», sostiene il poeta e filosofo che si definisce “testimone”. E qui racconta i suoi incontri e il suo impegno, da quando frequentava un bambino in “odore cardinalizio”
« Umorista nero » , dunque « prediletto dell’Angelo sterminatore » , Guido Ceronetti ha pubblicato da poco un nuovo libro, Tragico tascabile ( Adelphi 2015, pp. 215, 14,00 euro, ebook 6,99 euro). Al solito, quello di Ceronetti è lo sguardo del Filosofo Ignoto, che fissa senza paura, ma giusto con un po’ di divertito sgomento, gli abissi del presente, via via più fondi. Sembrerebbe un compito da stroncare anche i più temerari. Ma combattere i draghi e le chimere dell’euforia tecnologica, del vaneggiamento ideologico e religioso, della corruzione della lingua umana è una ginnastica intellettuale ( meglio, un kung fu con l’angelo) che agisce evidentemente da elisir, come un sorso d’acqua rubato alla fonte della giovinezza nelle Americhe favolose di Juan Ponce de León. Nato a Torino nel 1927, Ceronetti non gode d’una perfetta salute, cammina con difficoltà e di tanto in tanto, per tirare un po’ il fiato, si rifugia nella Casa di cura San Michele di Albenga. Ma intanto scrive libri che beffeggiano la condizione uma- na e se ne disperano, viaggia tra Roma e Torino, collabora con i giornali e soprattutto scrive, dirige e recita gli spettacoli del Teatro dei Sensibili, ultimo dei quali è un’interpretazione inattuale della Grande, Terribile guerra 1914- 18. Messo in scena nel 2014 dal Piccolo di Milano, Quando il tiro si alza sarà di nuovo in scena tra pochi mesi, in settembre, al prossimo Festival di Mantova. Lei scrive, nel suo Tragico quotidiano, che la Grande Guerra è stata « la madre di tutto » . Milioni di morti, tra cui buona parte della gioventù; tra i sopravvissuti largheggiano i traumatizzati di guerra. « Sì, ne seguì un impoverimento anche genetico dell’umanità. Fu una guerra escatologica, che deviò il destino del mondo, ed è una guerra che continua. Ora, io non sono uno storico, fortunatamente, perché allora vedrei soltanto ciò che vedono gli storici: una prima guerra che finisce nel 1918, una seconda guerra che finisce nel 1945, poi decenni di guerra fredda. Adesso il Papa parla di “terza guerra”. Ma naturalmente non c’è una terza guerra … è sempre la prima, sempre la Grande guerra » . Continua anche come guerra dell’islamismo contro l’Occidente? Lei ha scritto nell’Occhio del barbagianni ( Adelphi 2014) che « tutta la storia va iscritta nel simbolico, per poterne afferrare qualcosa » . « C’è una scena originaria: l’entrata del generale Edmund Allenby a Gerusalemme nel 1917, che allora non fu vista nella sua enorme portata da nessuno. Accanto ad Allenby c’erano due arabofoni: Lawrence d’Arabia e, trascurato ma non trascurabile, il grande arabista Louis Massignon. Dalla Dichiarazione Balfour, diffusa il 2 novembre del 1917, alla presa di Gerusalemme, del 9 dicembre successivo, corrono pochi giorni. È lì che la miccia viene accesa. Ecco, le cose significative sono queste… l’Occidente entra per la porta di Giaffa e lo accolgono con entusiasmo gli ebrei, che già sono lavorati dal sionismo e hanno già avuto la seconda grande migrazione, specie dall’est, dalla Russia. Gli ebrei sono contenti perché il loro Stato si va profilando, quello Stato che prima della guerra era meno d’un sogno e che poi volgerà nell’incubo della guerra permanente, cosa che in quel momento non può prevedere nessuno. Uno studioso, lo psicoanalista Daniel Sibony, che ho frequentato, ha scritto più d’un libro fondamentale su questi temi, tra cui Les trois monothéismes. Lui vede in questo scontro non una semplice “questione nazionale”, ma una crisi d’identità, che coinvolge le religioni monoteistiche. Questa guerra per l’identità, che ha coinvolto in una certa misura anche l’ateismo comunista, è qualcosa di permanente, e ha preso già tante facce… è lì che dormicchia, ma sempre meno. Anche presa sottogamba, la religione resta immidollata negli esseri umani, specie dove c’è questa terribile presenza islamica, che rende
tutto più fanatico. Per me l’Isis, lo Stato Islamico, è l’armata 666, il numero maledetto dell’Apocalisse… va oltre l’orizzonte del Male. Io sono soltanto un testimone, del resto, e non posso provare sentimenti né accesi né tiepidi. Provo soltanto una forte curiosità intellettuale. Però lì corre il sangue. Non dimentichiamolo. Di sangue, anzi, ne è corso anche troppo. Siamo ancora ben dentro alla Grande guerra » . E in Italia? Che percezione si ha della guerra escatologica in Italia? « Cent’anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, possiamo assistere – lo scriva – a un fatto umiliante: agli esami di maturità, quest’anno, non è stato dato un tema sulla Grande guerra. Niente. Forse perché sanno che nessuno lo farebbe, e invece tutti giù a farlo sui social network, qualunque cosa siano. Eppure, ce ne sono di cose da imparare e da dire su questa guerra infi- nita. È stato illuminato il fatto che è stata una guerra d’aggressione e di conquista, che non aveva altre ragioni se non la conquista, con la complicazione dalla passione irredentista, come venne chiamata, che era del tipo più cieco anche quella. Ma la scuola niente, non se ne preoccupa e non ne parla, silenzio » . Lei scrive: « L’irrealtà ci affligge più della realtà perché impedisce la percezione dei fondamenti reali delle cose » . E ancora una citazione: « Se non emendate il linguaggio, sarà bancarotta per qualsiasi politica » . « La politica è più astratta di quel che sembra. Il fatto è che la politica è distratta e sviata dall’essere quel che è dal fatto che è tutta economia, e l’economia, come dice Stevenson, è una frivolezza, alla quale viene data un’importanza enorme, decisiva, ma è soltanto fumo » .
Tragico quotidiano è allora anche il tentativo di dire qualche parola chiara e pertinente sullo stato del mondo? « Questo nuovo libro è nato tra grandi difficoltà, e non soltanto per via dei miei problemi di salute. Ho avuto difficoltà a metterlo insieme, anche perché non trovavo il bandolo. All’inizio era il titolo d’uno spettacolo per il Piccolo di Milano, che però non ne fu attirato. Invece l’Adelphi lo sentì come una cosa – è così che fanno loro – “adelphiabile”… lo hanno preso a scatola chiusa, proprio per il titolo. Habent sua fata… » È insieme saggistica alta e giornalismo legato agl’inciampi e talvolta alle mostruosità del « quotidiano » , come si dice con brutta espressione. Qual è la sua idea di giornalismo? « Per come lo posso concepire con questo carico d’esperienza, il nostro mestiere non
si fa tanto per fare. Qualunque giornalista interessante, come ce ne sono stati tanti, è consapevole d’avere una missione, mica soltanto informazione, informazione… Più c’è informazione, meno c’è giornalismo, perché il fine etico dev’essere quello principale. Era così per Montanelli, ed era così per Piovene, grande scrittore e grande giornalista. Era così per Corrado Alvaro. Tutti questi giornalisti avevano un fortissimo sentimento etico. Sono stati una troupe gloriosa. Qualcuno c’è ancora. Claudio Magris, anche lui sente così. E Raffaele La Capria. Anch’io mi sento, come loro, uno scrittore che scrive sui giornali » .
Come ha cominciato?
« Erano altri tempi. Se si entrava alla Stampa con Giulio De Benedetti, ti facevano vedere le stelle, dovevi proprio sgobbare. Io non l’ho fatta questa gavetta perché sono stato fortunato. Ma non riuscivo quasi a scrivere. Ho cominciato scrivendo su un giornale umoristico, si chiamava Sottozero… fu subito dopo la guerra, nel 1945. Allora ero nel partito socialista. Scrivevo anche sul Sempre Avanti, diretto a quel tempo da Umberto Calosso, che era stato una delle voci di Radio Londra. C’era l’edizione nazionale, l’Avanti!, col quale avrei poi collaborato, anni e anni dopo, anche con intere pagine culturali. Naturalmente aspiravo alla terza pagina, la pagina dell’élite. Mi occupavo di cose culturali. No, non ho mai frequentato ambienti letterari, ma c’era una specie di salotto, a Roma, in Via Sant’Eustachio, dove abitava Giacomo De Benedetti. Si andava lì, una volta alla settimana. Fu in casa De Benedetti che conobbi Walter Pedullà, che allora dirigeva la pagi- na culturale dell’Avanti! Che anno era? Era dopo il 1962, quando andai a vivere a Roma. Lavoravo nel cinema, facevo soggetti e sceneggiature. Un mio solo film è arrivato allo schermo. Era una sceneggiatura per un Ercole, non ricordo il titolo… Ercole nel regno della Tessaglia, un titolo così… il regista era Duccio Tessari, che poco dopo si mise a fare western. Tessari aveva uno sceneggiatore, un bravo mestierante, Alessandro Continenza, e io mi univo con loro in casa di Continenza, e incontinentemente facevo quello che loro mi dicevano… ne sapevo un po’ più di loro di mitologia, e allora adoperavano questo poco che sapevo per i loro film. Sono i miei lavori giovanili, non ne ho fatti pochi… Quel che ne sopravvive – esordi teatrali, attività cinematografiche – è alla Biblioteca cantonale di Lugano, che custodisce anche il lascito letterario di Ennio Flaiano » .
E l’inizio della sua avventura di Filosofo Ignoto e di saggista?
« Ecco, dal 1955 in poi ho preso una strada molto poco battuta, in Italia, che mi ha squilibratoincertosensofinoalla tardaetà, cioè il paradossale, sempre in Italia, studio del Vecchio Testamento e dell’ebraico. Da noi praticava un po’ d’ebraico Carlo Maria Martini. Vedi il caso, il Cardinale Martini e io siamo stati insieme alle elementari, a Torino. Lo incontravo, quand’era soltanto monsignore, al Pontificio Istituto Biblico di Piazza della Pilotta, a Roma, e lo avrei rivisto volentieri in vecchiaia, ma non c’è più stata l’occasione… Anche altri avrei voluto rivedere. Carmelo Bene, per esempio. Mi sarebbe piaciuto frequentarlo, imparare da lui. Poco prima che morisse, lo vidi soltanto per un’ora, a Parigi, all’hotel dove andava. Chiacchierammo un po’, mi parlò dei suoi mali… tanti ne aveva, tanti che mi stupivo che fosse lì a parlarne. Non era vecchio, però era vecchio d’esperienza di vita » .
Lei ha dedicato Piccolo inferno torinese ( Einaudi 2003) alla sua città. Sbaglio se penso che Torino sia stata una specie di finestra di Magritte aperta sulla complessità del mondo?
« Ho frequentato per diversi anni uno che aveva una bancarella di libri usati davanti alla Questura. Ilario Margarita, si chiamava. Era un vecchio anarchico, un anarcosindacalista. Mi fece conoscere la rivista Le contrat social, una rivista colta e fieramente antistaliniana… denunciava i crimini di Stalin quando si osava appena accennarne, perché il partito comunista diventava furente. Ilario, che dava del losco figuro a Palmiro Togliatti, figura nelle storie torinesi del socialismo... Paolo Spriano ne parla nella sua storia di Torino operaia e socialista. Torino, nei primi anni dell’altro secolo, era una città molto attiva, preoccupava il governo nazionale per il suo pacifismo, e Ilario era lì… la sua tana era la camera del lavoro. Poi andò in Spagna, ne parlava sempre, aveva combattuto nella milizie della Cnt, la “ceneté”, il sindacato bakuninista, e aveva conosciuto l’anarchico “espropriatore” Buenaventura Durruti. Una cosa che ripeteva spesso è che, se i bolscevichi, prendendo d’assalto
« Qualunque giornalista interessante è consapevole d’avere una missione. Il fine etico dev’essere quello principale. È stato così per Montanelli, Piovene, Corrado Alvaro »
il Palazzo d’inverno, persero in tutto due o tre uomini, gli anarchici per prendere il Palazzo delle Poste a Madrid persero almeno 120 uomini… Ilario, torinese cosmopolita, pensava che la rivoluzione leninista meritasse solo disprezzo » .
Lei ha scritto libri memorabili, tra cui l’ultimo, Tragico tascabile, tutti di successo e tutti molto amati dai suoi lettori, che sono poi gli ultimi tifosi della commedia morale.
« Successo è una parola grossa. In un amore felice, il mio romanzo sul sogno ufologico e sull’amore, non ha avuto fortuna. Un libro che invece è passato subito è la mia traduzione dell’Ecclesiaste, il Qohélet, che dopo tanti anni continua ad avere lettori, specie tra i giovani. C’è forse una ragione: in un mondo di menzogna il Qohélet spiega che tutto è vanità, tutto è fumo, dice cioè le cose come stanno. Se qualche politico si fosse formato lì sopra, su una traduzione che non inzucchera e non edulcora, ne avremmo avuto tutti grandi vantaggi… il Piccolo l’ha portato in teatro con molto successo. Come Catullo, Marziale e Giovenale, che ho tradotto per intero, anch’io mi considero un autore satirico. Ma come autore satirico non ho mai avuto successo. Non ha avuto gran successo nemmeno il mio Viaggio in Italia, che comunque è stato acquisito qualche mese fa in una collana Einaudi di sola narrativa, che pubblica quel che c’è stato di classico nel secolo passato, ed è una collocazione che mi onora » .